Posted: Ottobre 2nd, 2023 | Author:nullo | Filed under:General | Commenti disabilitati su Cellophane. Da qui, non si vede più il mare!
Se a Montemesola ci arrivi dalla provinciale che la congiunge a Monteiasi, ricalcando una deviazione dell’antica Via Appia, i tre colli che compaiono nel suo stemma li noti subito. Ti si parano di fronte, svelandoti il percorso che probabilmente fecero i soldati napoleonici per raggiungere il paese, ormai più di duecento anni fa. Già, perché, fino al 1859, quando fu completata quella che ancora oggi alcunə anzianə chiamano “Via Nuova”, una traversa che congiunge l’abitato alla Taranto-Martina, per venire da ‘ste parti dalla città, dovevi seguire la Via Appia, che Montemesola e Monteiasi le sfiora. I tre colli invece, vennero presumibilmente adottati, o riscoperti, come emblema del comune proprio durante il Decennio napoleonico: è a quegli anni che risale la prima testimonianza giunta a noi. Solo percorrendo quella strada si vedono esattamente come sono rappresentati nel simbolo.
Colli e pipistrelli
Il più antico documento che attesta il loro utilizzo come insegna dell’universitas è datato 18 maggio 1810. Conservato nell’archivio storico comunale, illustra una proposta del sindaco, il quale suggerisce che vengano eletti due decurioni al fine di ripartire la tassa sui grani.
A guardarlo oggi, fa venire in mente quei test che non di rado si incontrano su Facebook: “Dimmi cosa vedi e ti dirò chi sei”. Nell’immagine che sigla il foglio, si vedono sì i tre colli, ma si scorge anche un pipistrello, o, se hai visione d’insieme, vedi i colli sovrastati da un enorme nottola. È un effetto non voluto, dovuto all’impossibilità di timbrare a colori e alla necessità di affidarsi a raffigurazioni bicromatiche in bianco e nero. Così, usando il bianco per le alture, il cielo che le sovrasta non può essere che nero. Prendendo la forma di un pipistrello.
Nella simbologia cristiana, il pipistrello è considerato un animale impuro, un essere malefico capace di portare morte e caos. Devastazione e caos vengono in mente anche mentre osservi i colli percorrendo la Monteiasi-Montemesola: non puoi non notare che uno di essi è quasi scomparso, in grossa parte mangiato da una cava d’argilla in funzione fino a circa un decennio fa; necessaria all’Ala Fantini, una fabbrica di laterizi con sede in paese, per produrre i mattoni forati che vendeva in tutta Italia. Quel colle consumato da una cava abbandonata, mai riportata, come prevede la legge, allo stato precedente, in grado di deturpare, nella realtà, l’icona che rappresenta questi luoghi sulla carta, probabilmente è l’istantanea migliore per descrivere lo stato in cui versa il comune.
Come nella microstoria
Taranto, che da qui dista pochissimo, ancor meno se si considera che il suo ultimo quartiere sul versante orientale, Paolo VI, si trova ad appena otto chilometri da Montemesola, è spesso stata al centro dell’attenzione negli ultimi anni. Non è mai stato fatto, però, un vero lavoro d’inchiesta sullo stato in cui versa la città, l’indice è sempre stato puntato sull’ex Ilva, ma senza connettere il siderurgico alle dinamiche che attraversano il territorio, spesso condizionate dalla sua stessa presenza. Gli altri comuni dell’area a rischio ambientale, e Montemesola è uno di questi (assieme a Crispiano, Massafra e Statte), invece, sotto i riflettori non ci sono finiti mai. Dimenticati da media che cercano la sensazione, ma, quasi sempre, si rifiutano di indagare a fondo i temi che decidono di trattare, non permettendo al pubblico di comprendere i processi che caratterizzano un territorio, i nessi con altri territori, e, con essi, la realtà contemporanea.
Eppure, come nella microstoria, analizzare nel dettaglio un particolare, in questo caso il contesto montemesolino, può essere utile per evidenziare meccanismi generali, che non solo connotano la provincia di Taranto, ma la società italiana e globale. Nel piccolo, a volte, è possibile osservare meglio alcuni fenomeni che, in contesti più vasti, vengono offuscati, pur essendo centrali nel determinare l’andamento sociale.
Cellophane&palazzi
La strada tra Montemesola e Monteiasi è molto trafficata d’estate: è la via più breve per raggiungere la Litoranea Salentina, la zona balneabile più vicina. A dire il vero, il mare, da qui, dista circa dieci chilometri, ma è il Mar Piccolo di Taranto: non è mai stato bonificato dagli scarichi delle fogne che un tempo riversavano lì gli escrementi, dalle scorie della base navale e dagli sversamenti inquinanti dell’ex Ilva. Ad agosto scorso, tornando da una giornata in spiaggia, mio nipote mi ha chiesto: “Zio, ma quello è ancora mare?” – in realtà eravamo nell’entroterra.
Giunti allo svincolo per immettersi sulla Taranto – Brindisi, circa a metà del tragitto tra i due paesi, lo sguardo spazia da un lato verso Grottaglie, dall’altro verso Taranto. Quella che mio nipote scambiava per acqua, è, su entrambi i lati, un’enorme distesa di cellophane utilizzato per ricoprire i vigneti. L’uva da tavola, così, è protetta dalle intemperie e matura prima. Se venduta sui mercati esteri, o del Nord Italia, garantisce maggiori profitti. Inganna l’occhio tutta quella plastica che avvolge chilometri di terreno. Sembra acqua davvero.
L’ex Ilva è in crisi, ma la propensione alla monocoltura permea questo territorio. Così, se la città, dopo il siderurgico, guarda esclusivamente al turismo, principalmente quello delle navi da crociera, le zone intorno a essa, un tempo, come Montemesola, prevalentemente operaie, puntano in primo luogo sull’agricoltura intensiva, la quale, a lungo andare, per effetto di diserbanti e fertilizzanti, inquina e desertifica la terra e, nel caso dell’uva da tavola, deturpa il paesaggio a causa del cellophane utilizzato per coprire i vigneti.
Pur essendo a soli 183 metri sul livello del mare, Montemesola è il comune più alto in questa area della provincia. Quando ci arrivi da Monteiasi, da Grottaglie, o da Paolo VI, a oriente puoi osservare la piana che si estende fino a Brindisi, a occidente il Mar Piccolo e Taranto. Il tratto di Via Grottaglie dove nei primi anni Ottanta fu realizzata una passeggiata, è l’unico che si affaccia ancora sul lungovalle. Da lì, fino a poco tempo fa, era possibile scorgere il mare. Adesso non riesci a distinguerlo quasi più, confuso com’è tra i teli di plastica utilizzati per far maturare prima l’uva.
Pare quasi che, pezzo dopo pezzo, ‘sta terra la stiano impacchettando nel cellophane, proprio come i prodotti nei supermercati. E, in effetti, un prodotto è considerata. Materia prima da svendere per garantire profitti a pochi. A imprese che sì, portano lavoro, ma anche redditi molto più bassi rispetto a quelli che assicurava il siderurgico. Aziende che, in modo non dissimile dall’acciaieria, hanno un elevato impatto ambientale e paesaggistico. La loro presenza, di fatto, impedisce anche solo di immaginare altre soluzioni per lo sviluppo di questi luoghi. Soluzioni che andrebbero elaborate collettivamente, non imposte dall’alto, in base agli interessi privati di alcuni, come avviene. Quei teli non deturpano solo il paesaggio, parlano di un modo di produzione, quello capitalistico, insostenibile per l’uomo e per l’ambiente in cui vive.
Il cellophane, però, se vi sono politiche agricole e paesaggistiche adeguate, può essere rimosso. Mica è solo quello a deturpare.
Percorsi i circa centocinquanta metri della passeggiata, proseguendo su Via Grottaglie fino alla prima porta, quella di San Martino, che permette di accedere al centro storico, le vallate che circondano il paese scompaiono alla vista. Sono nascoste da una serie di palazzi, alcuni dei quali molto brutti, costruiti tra gli anni Cinquanta e i primi Settanta del Secolo scorso. Sembra quasi che si sia voluta occultare la bellezza che circonda l’abitato a chi lo vive e lo anima. Per non permettere loro di goderne, per non stimolarne la fantasia. Per portarli ad accettare una realtà che deve apparire immutabile. Rimuovere questi stabili è assai più complesso che far scomparire la plastica.
Nascondere la bellezza
Camminando su quel tratto, viene in mente il rione Tamburi di Taranto: avrebbe un lungomare bellissimo, se solo non fosse celato, su Via Galeso, da una serie interminabile di edifici. Uno dei primi libri di Alessandro Leogrande aveva per titolo Il mare nascosto, e non è un caso che parlasse anche dello sviluppo urbanistico della città, in particolare delle sue periferie.
A Montemesola, come nella periferia di Taranto, zone che erano prevalentemente abitate dalla classe lavoratrice, la bellezza andava sottratta allo sguardo. Per garantire gli interessi e i profitti dei palazzinari; per inibire la capacità di sognare a soggettività che potevano immaginare un futuro diverso per questo territorio.
Non di rado, moltə, descrivendo questi luoghi, parlano di un’indolenza e di una rassegnazione ataviche, quasi un tratto genetico di chi li abita. Anche se sono natə qui, raramente conoscono la storia delle lotte che, da epoche remote, hanno segnato questa terra. Montemesola, per esempio, solo cento anni fa, contava una nutrita sezione degli Arditi del Popolo; nonostante i pochi abitanti, come numero di iscritti era tra le prime della provincia. Nel 1921 la sede del fascio fu incendiata dai contadini, uniti nella Lega, in corteo. Parecchi furono gli episodi di resistenza prima dell’avvento del fascismo. Caduto il regime, nel luglio del 1943, passarono pochi mesi, era il 6 settembre di quell’anno, e fu aperta la sezione comunista. Forse la prima in Italia dopo la dittatura. I tedeschi non avevano ancora abbandonato la zona e l’armistizio con gli Alleati sarebbe stato firmato solo due giorni dopo.
Spesso, con alcuni fenomeni, come le tradizioni, capita: pur se relativamente vicinə nel tempo, vengono fattə risalire a periodi remoti. È quello che è accaduto con l’ignavia e la rassegnazione di chi vive questi luoghi: lontane dall’essere un tratto genetico, sono fattori molto recenti, che caratterizzano questa terra più o meno dagli anni Ottanta del Novecento, quando ogni speranza di cambiamento radicale viene meno, e si impone l’ideologia neoliberista, con la mentalità e la cultura che produce. Nascondere il mare e le vallate, forse, ha parecchio contribuito al suo consolidamento.
Neoliberismo in salsa montemesolina
Se non si proseguire su Via Grottaglie, ma, una volta giunti in paese, si svolta a sinistra, su Via Buzzerio, è possibile costeggiare le antiche mura, anch’esse non più visibili perché, a loro ridosso, sono stati edificati dei palazzi. Sull’altro lato, invece, si trova la villa comunale, dedicata ai Martiri Partigiani (ma questo, a Montemesola, non lo ricorda più nessunə).
Fu realizzata tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta dalla giunta comunista che, dal 1975 al 1985, amministrò il comune (un’altra giunta comunista, non più legata al Pci, ma a Rifondazione, amministrò dal ‘95 al 2000). Era di proprietà della famiglia dell’ex podestà fascista, alla quale fu espropriata. Leggende locali narrano che, una notte, cercarono di tagliare gli alberi secolari lì presenti, per rendere inutile l’esproprio. Furono fermati da torme di metalmezzadri che si recarono immediatamente sul posto, impedendo di proseguire con gli abbattimenti.
Ora è data in gestione a un privato, che l’ha trasformata in un bar, versando al comune un canone di affitto di appena 220 euro al mese. La passata amministrazione comunale, guidata dal fratello dell’attuale sindaco, ha consumato un finanziamento pubblico di circa 400mila euro per restaurarla dopo tre lustri di abbandono. Da qualche mese il bar è chiuso, l’accesso all’unico spazio verde del paese nuovamente sbarrato.
Non è l’unica struttura o l’unico servizio dato in affidamento a privati sul territorio comunale. L’ex scuola materna è assegnata a una società sanitaria. In paese si vocifera che sta per essere venduta a essa, ma non c’è alcun atto a dimostrarlo. L’unico documento nel quale viene citata è il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, nel quale, tra il 2020 e il 2022, è stata svalutata per più di trecentomila euro.
Anche l’illuminazione pubblica, la mensa scolastica e il servizio di nettezza urbana sono affidatə a privati. Con appalti onerosi e ventennali, che pesano parecchio sulle tasche di cittadine e cittadini. La Tari, dal 2000 a oggi, è aumentata circa del 500 percento; l’addizionale Irpef è tra le più alte della provincia, con fasce di esenzione assai esigue, più basse di quelle nazionali. Il debito comunale, invece, continua a lievitare.
I conti non tornano
Nel 2014, quando è stato approvato il piano di riequilibrio finanziario pluriennale, una scelta che, pur accollando sulle casse comunali, e su cittadinə, oneri più elevati, permetteva, a differenza del dissesto, all’allora sindaco di ricandidarsi, la Corte dei conti ha certificato la presenza di debiti fuori bilancio pari a 971.409,91 euro. Tra il 2015 e il 2020, invece, i debiti fuori bilancio prodotti ammontano a 345.806,27 euro.
Gli attuali amministratori imputano grossa parte del disavanzo alle amministrazioni passate. Però, andando a scavare tra le delibere che riconoscono i debiti fuori bilancio tra il 2015 e il 2020, le uniche disponibili online (l’Albo pretorio storico, a oggi, risulta inaccessibile), ci si rende conto che molti di questi derivano da contenziosi e spese legali. Solo per fare un esempio: dopo non aver pagato le bollette dell’energia elettrica a Hera, si è fatta causa all’azienda, ovviamente perdendola. Cosa che farà enormemente aumentare l’esborso da parte del comune. Non è un caso se, nella deliberazione del 3 marzo 2022, la Corte faccia notare che non vengono accantonate le risorse necessarie per far fronte alle numerose controversie in atto.
Persino l’indennità di fine mandato dell’ex sindaco (eletto, come l’attuale, con una lista civica originariamente legata all’Udc), pari, per il periodo che va dal 2015 al 2020, a 9.158,07 euro è, secondo la Corte dei conti, da considerarsi “non conforme al dettato normativo”, poiché, per pagarla, si è attinto a un fondo le cui risorse non potevano essere destinate a quello scopo.
Borgo o borgata?
Nel frattempo Montemesola si sta spopolando: in venti anni ha perso poco meno di mille abitanti, passando da 4.275 a 3.587. Chi resta, è sempre più anzianə: l’età media, tra il 2002 e il 2021, è cresciuta di circa 7 anni, passando da 40,3 a 47,6.
La retorica di chi amministra fa sempre più spesso appello al concetto di borgo, favoleggiando un rilancio turistico del territorio, per ottenere il quale, però, non si fa nulla. La realtà, al contrario, pone sotto gli occhi dinamiche che fanno somigliare il paese più a una periferia disagiata che a un borgo da favola. Nel comune non è presente alcun presidio ospedaliero, neanche con servizi minimi; per ottenere un medico di base, occorre rivolgersi a quelli dei comuni vicini: quelli sul territorio hanno raggiunto il numero massimo di assistiti. Persino la guardia medica è disponibile solo tre giorni alla settimana. Negli altri devi raggiungere Monteiasi, anche se stai male in piena notte: il servizio si alterna tra i due paesi, distanti nove chilometri e mezzo. Pure la direzione scolastica è stata trasferita altrove, nello stesso momento in cui cessava il servizio di scuolabus, considerato dall’amministrazione troppo oneroso.
Le strade sono dissestate, le vie sporche. Quel poco verde che c’era, è stato rimosso. Come i pini marittimi di Largo Osanna, tagliati per far posto a nuovi alberi, non si sa ancora quali, che impiegheranno decenni per fare ombra. Intanto l’incidenza dei tumori resta alta.
Sembra quasi che tutte le storture delle politiche neoliberiste, e del capitalismo, si siano date appuntamento qui: dai tagli alla sanità, alla devastazione ambientale; dalle privatizzazioni selvagge, alla soppressione dei servizi pubblici; dai bassi salari, all’elevata disoccupazione. O forse, più semplicemente, paiono maggiormente evidenti a causa delle ridotte dimensioni del comune. Moltə, però, anche a diversi chilometri di distanza, potrebbero notare le stesse dinamiche nei luoghi in cui vivono. E prendere atto di come abbiano peggiorato la qualità della vita.
Tornino i pipistrelli
Che poi, Montemesola, un bel borgo lo è davvero. Con una storia particolarissima. Alla fine del Settecento, il marchese dell’epoca, giunto da poco da Napoli, fece radere al suolo l’antico abitato medievale, per edificarne da zero uno nuovo. Per questa ragione, a differenza che nei paesi vicini, le vie principali del centro storico sono abbastanza larghe, realizzate in base a principi urbanistici all’avanguardia per l’epoca. Gli irmici, i caratteristici granai rialzati dal suolo che prendono il nome dalle tegole che li coprivano, sono ormai tutti scomparsi, resta invece il palazzo marchesale, costruito contemporaneamente all’abitato, inglobando la struttura nobiliare che lo precedeva. Restano, assieme alla chiesa madre, anche le porte urbiche, una delle quali, la principale, quella di San Francesco, fu completata nel Decennio napoleonico e i suoi altorilievi portano ancora le tracce della rivoluzione francese.
Secondo alcune fonti, il paese fu fondato dagli abitanti di una città messapica di cui si è perso anche il nome, che aveva come acropoli Monte Salete, un colle poco distante. C’è chi sostiene possa essere la Sallentia polis messapìon, la città citata dal geografo Stefano di Bisanzio che darebbe il nome all’intero Salento. Erano gente di rito greco: nei primi anni del Trecento rifiutarono l’imposizione dell’Arcivescovo di Taranto, il quale ordinava loro di trasferirsi nella vicina Grottaglie, e ripopolarono il casale abbandonato che sorgeva dove ora si trova Montemesola.
Nelle vicinanze sono presenti diverse tracce risalenti al neolitico e, alcune leggende locali, richiamano la caccia selvaggia descritta da Carlo Ginzburg in Storia notturna. Uno dei pochi casi nel Meridione d’Italia. Nella gravina, un’insenatura carsica tipica di queste zone, purtroppo anch’essa privata e inaccessibile al pubblico, è invece presente un altare protovillanoviano che ha eguali solo nel viterbese.
Probabilmente, anche recuperando la storia di questi luoghi si potrà contribuire alla loro rinascita. Del resto, i pipistrelli, che all’inizio di questo testo sono stati interpretati come un cattivo presagio, nella cultura greca e romana erano, al contrario, di buon auspicio. Nelle favole di Esopo sfuggono sempre alla morte grazie al loro spirito di adattamento e all’ingegno che li caratterizza. Più in generale, rappresentavano una protezione dalle creature malefiche. Allora, proviamo a immaginare che il pipistrello, accidentalmente raffigurato in una delle prime rappresentazioni dello stemma di Montemesola, protegga il paese. Indichi, come nei racconti di Esopo, che ‘sto luogo continuerà a vivere, riuscendo ad attraversare la lunga notte del neoliberismo. Una notte, in questa terra, forse più buia che altrove.
Da oggi, periodicamente, pubblicherò su Nullo Project reportage come questo. Se ti piace questo lavoro, sostienilo, anche solo con il costo di un caffé. Ogni euro donato servirà a finanziare I loro incubi sono i nostri sogni, un progetto transmediale sugli anni Ottanta e Novanta del Novecento.
Posted: Marzo 17th, 2023 | Author:nullo | Filed under:General | Commenti disabilitati su I loro incubi sono i nostri sogni
Gli anni Ottanta e Novanta visti attraverso lo sguardo di hacktivistə e mediattivistə
Le sette vite di Léa, è una serie andata in onda su Netflix nel giugno del 2022. Racconta le vicende di una quindicenne contemporanea, Léa appunto, che, dopo aver rinvenuto dei resti umani durante un rave, si risveglia ogni notte nel giugno del 1991, incarnandosi in Ismail e nelle altre sei persone che erano con lui la notte in cui è morto.
Forse, a sentir parlare degli anni Ottanta e Novanta, proverai il suo stesso spaesamento, avvertito quando, nel corpo di Ismail, è alle prese con una vecchia cabina telefonica.
A moltə, quegli anni possono apparire come un’epoca lontana, molto diversa dalla nostra. A un primo impatto, anche la serie, facendo riferimento a strumenti ormai desueti, come una cabina telefonica, o un videoregistratore, pare trasmettere quest’idea. Però, di fondo, il messaggio è un altro: eventi prodottisi ormai diversi anni fa, continuano ad avere effetti nella nostra contemporaneità. Indagare quegli anni, può aiutare a comprendere i nostri.
Certo, è una questione di prospettiva. Occorre scegliere quella giusta.
Se, per esempio, qualcunə di voi si imbattesse nelle immagini del corteo circense, che attraversò le strade de La Sapienza di Roma alla fine di gennaio del 1991, durante le occupazioni della Pantera, non potrebbe che sentirsi sperdutə. Catapultatə in un’epoca poco affine alla nostra.
Del resto, anche Carmelo Albanese, nel suo documentario C’era un’Onda chiamata Pantera, mette in stretta relazione le immagini di quella parata con quelle degli anni Settanta. Così, a chi le guarda, non resta che pensare che quei decenni siano molto simili. Niente a che vedere con i nostri anni Venti del Terzo millennio.
Bianco
Eppure, basta cambiare punto di vista per evitare ogni straniamento e leggere quel periodo come strettamente connesso al nostro.
La fotografia a sinistra, rappresenta i cortei che si sono tenuti in Cina sul finire del 2022. Quei cartelli bianchi – spiegava un manifestante alla Reuters – simboleggiano la censura, l’impossibilità di esprimere il proprio dissenso. Negli ultimi anni, come ricostruisce Mattia Salvia su Istagram, nel suo profilo Iconografie del XXI secolo, in diverse parti del mondo ci sono state proteste simili.
L’immagine a destra, invece, è di più di trent’anni fa. È una foto di Luciano Nadalini che immortala il corteo muto, andato in scena per le strade di Bologna il primo marzo del 1990, durante le proteste studentesche contro la riforma universitaria.
Non ti sembrano sorprendentemente simili nei contenuti?
Le ragioni che spinsero studentesse e studenti bolognesi a sfilare imbavagliati, con cartelli e striscioni bianchi, sembrano invece parzialmente diverse rispetto a quelle odierne. A essere contestata non era semplicemente la censura, l’impossibilità di parlare, ma il travisamento delle parole, la società dello spettacolo che
preme per trasformare ogni messaggio in merce, ogni azione controculturale in stanco rito falsamente alternativo, ogni dissenso in nuovo pilastro dell’industria culturale; contestazione alla faziosità della stampa borghese che canalizza il nostro urlo e trasforma la “prateria in fiamme” in un “oceano di mutismo”
Sono parole di Roberto Bui, l’attuale Wu Ming 1, scritte su di un vecchio foglio, con il quale propone all’assemblea il corteo muto. Il testo, è conservato nell’Archivio dei movimenti di Via Avesella, a Bologna.
Archivio dei movimenti “Via Avesella”, Bologna – Fondo “Movimento Pantera”, Fascicolo 1a
Sempre a Bologna, nell’Archivio “Marco Pezzi”, è conservato invece il volantino che venne distribuito durante quella manifestazione. Il bianco, in quel caso, viene spiegato così
BIANCO. Il vuoto non ha colore né forma, ma lo si immagina bianco, forse unidimensionale. Il bianco del nostro striscione è mastice tra le nostre labbra; il mutismo dei nostri cartelli è l’unica possibile parola…
Archivio “Marco Pezzi”, Bologna – Fondo “Fabrizio Billi”, Fascicolo 8.2
Anche questi concetti, non ti paiono ancora attuali?
Gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, sono quelli in cui la nostra contemporaneità comincia a prendere forma. Da un lato si sgretola il vecchio sistema politico, persino l’assetto istituzionale muta. Dall’altro, l’economia, tra le altre cose, sia dal punto di vista del modello produttivo, sia da quello della globalizzazione delle proprietà, della produzione e dei commerci, assume le sembianze che la caratterizzano attualmente.
Sono gli anni in cui l’ideologia neoliberista diviene egemone, sconfiggendo le rivendicazioni sociali, assieme ai movimenti e alle forze politiche che le reclamavano.
È questa la ragione per la quale ho deciso di indagare quel periodo, ormai al centro di diverse serie e programmi tv, ma ancora fuori dall’obiettivo di molti storici. Anche perché – come sostiene Mercoledì Addams – se la nostra storia non la scriviamo noi, saranno altri a farlo.
È anche questo uno dei motivi per cui ho deciso di farlo attraverso alcune avanguardie: hacktivistə e mediattivistə in grado di mettere a disposizione dei movimenti sociali le infrastrutture telematiche per comunicare e di condividere analisi che, se rilette oggi, non di rado paiono ancora attuali.
Sorrisi
Ci sono due libri, scritti entrambi in Italia nei primi anni Ottanta, che mi capita spesso di tornare a sfogliare o a leggere: Guida all’uso delle parole, di Tullio De Mauro, e Il nome della rosa, di Umberto Eco.
Nel primo, al sorriso, sono dedicate esclusivamente alcune pagine. Ridere – dice De Mauro – è un tratto distintivo degli umani, quello che li differenzia, forse più di ogni altra cosa, da specie diverse. È col sorriso che un bambino passa dalla passività a un comportamento attivo. Ed è cominciando a sorridere che entra a pieno titolo nella comunità.
Anche il secondo libro, quello di Eco, parla del riso. In questo caso è centrale. Tutto ruota su di un monaco, Jorge da Burgos, che è pronto a uccidere pur di celare un libro che parla della commedia, cioè di uno spettacolo che porta a ridere. Spesso di gusto. Sorridere – secondo lui – allontana l’uomo da Dio. Non è lecito farsi beffa del creato, o dei potenti.
Perché parlo di questo?
Per due ragioni: i testi citati, seppur in contesti diversi, non di rado saranno richiamati negli episodi di questa serie; parlare di sorrisi, poi, mi permette di descrivere in modo pomposo il lavoro che con questo testo vorrei presentare, e che si svilupperà nei prossimi mesi.
Per dirla con termini altisonanti, quella che vado a raccontare è la storia di chi, in vari modi, ha cercato di cancellare il sorriso, o di trasformarlo in un riso amaro, a più generazioni. È, però, anche la storia di chi a questo si è opposto, ha indicato vie diverse. Strade che oggi, in molti casi, stanno scomparendo dalle mappe.
In termini meno barocchi, e più scientifici, quello che si svilupperà da questo primo discorso è un esercizio di storia del presente, che cercherà di descrivere come, e perché, la società che si manifesta ai nostri occhi ha preso forma. E lo fa attraverso lo sguardo dei movimenti sociali, in particolare di mediattivistə e hacktivistə che li hanno attraversati.
Non credere nei media, essilo!!!
Nel 2006, Tatiana Bazzichelli ha pubblicato Networking. La rete come arte, ad oggi – forse – la mappa più esaustiva delle esperienze di hacktivismo italiane. Nell’introduzione a quel libro, Derrick de Kerckhove scrive
L’Italia è un paese controllato dai media di comunicazione e in particolare dalla televisione: è normale che per resistere a un medium collettivo, se ne crei uno connettivo, dando vita a una tradizione artistica di networking che investe tutto il territorio nazionale, e che ancora oggi è in evoluzione. E nella creazione di tale connettività diffusa, l’accesso libero alla rete si fa un’occasione per sviluppare la propria comunicazione dal basso, plasmandola a seconda dei propri bisogni. Bisogni che diventano pratiche artistiche sovversive atte a creare nuovi scenari di partecipazione libera e di visibilità per tutti.
È per resistere allo strapotere dei media mainstream che, in Italia – dice de Kerckhove – grossa parte degli sforzi di hactivistə si sono indirizzati alla creazione di media indipendenti e liberi. A ben guardare, andando a ritroso nella storia nazionale, si trovano diverse conferme a questa sua riflessione.
Palmiro Togliatti, allora segretario del Pci, fu invitato per la prima volta in Tv il 14 ottobre del 1960, in seguito all’insurrezione antifascista del luglio di quell’anno, che, di fatto, portò a una parziale democratizzazione della vita politica italiana. In quel caso, esordì con queste parole
Con gli anni, e con il trasformarsi del Pci in una forza moderata, quel partito ebbe sempre meno problemi da questo punto di vista, ma, quella della “controinformazione”, fu una questione centrale per i movimenti sociali e le organizzazioni che nacquero alla sua sinistra. Qualche tempo fa, mentre lo intervistavo, Void, un veterano dell’hacktivismo italiano, poneva la questione in questi termini
Del resto, senza un’attitudine alla controinformazione, e in assenza di esperienze in questo senso, probabilmente anche la verità sulla strage di Piazza Fontana sarebbe rimasta nascosta, come non sarebbero nate tante esperienze, legate alla produzione cartacea, o a quella radiofonica. Alcune delle quali ancora oggi attive. È proprio nelle esperienze radiofoniche che si affina un’attitudine all’hack, a interagire creativamente con tecnologie pensate per altro.
qualsiasi interazione creativa e originale con una tecnologia preesistente volta a modificarne le funzioni rispetto a quanto previsto dal suo designer originale
Parole confermate da quanto diceva Gomma ormai più di trent’anni fa, quando fu intervistato da Mixer il 17 luglio 1991
I primi contatti tra i movimenti sociali e i pc, furono caratterizzati dall’utilizzo delle nuove tecnologie per impaginare fanzine cartacee. ZombiJ, che sui computer smanetta dai primi anni Ottanta, ed è uno dei padri di Ecn, la prima rete telematica in grado di connettere l’antagonismo italiano, ricorda così quell’incontro
Ben presto, però, ci si rese conto che il computer metteva a disposizione un ventaglio di possibilità molto più ampio rispetto alla semplice realizzazione di materiale cartaceo. Possibilità che cominciarono a essere esplorate con l’acquisto dei primi modem
È il prologo alla creazione di Ecn, la rete telematica nata nel 1989 che, fino ai primi anni del nuovo millennio, ha connesso i movimenti sociali italiani. ZombiJ descrive la sua genesi con queste parole
Qualche tempo fa Void e ZombiJ mi hanno messo a disposizione l’archivio di Ecn quando era ancora una bbs. In esso, divisi in ottantotto cartelle tematiche, sono contenuti 8.430 file: tutti i messaggi e gli scambi che circolarono su quella rete tra il 1989 e il 1996, quando Ecn migrò sul web. I temi trattati spaziano dall’antifascismo alle questioni del lavoro e del modello produttivo; dalle questioni di genere a quelle ambientali. Un patrimonio prezioso per comprendere quegli anni, e, con essi, i nostri.
Uno degli scopi del lavoro che mi accingo a intraprendere, è di “restaurare” quell’archivio, renderlo disponibile online e fruibile da tuttə.
Che, detto così, può sembrare una roba semplice. Però, se tenete conto che molti file sono nelle condizioni dell’immagine qui sotto, potete rendervi conto che un po’ di tempo ci vuole.
Poi, ovvio, non è che sono Indiana Jones che deve decifrare delle antiche tavolette d’argilla incise in proto elamitico, ma, insomma, molte delle mie ore saranno destinate a trovare il modo di farvi leggere ‘sto materiale.
Anche perché, scavando in quell’archivio, è possibile ricostruire diverse riflessioni dei movimenti sociali sugli anni, e i processi sociali, che sono al centro della ricerca che sto presentandovi.
Primo
Tra quei file, per esempio, è conservata la trascrizione di una vecchia intervista a Primo Moroni, realizzata nel marzo del 1995 da Radio Onda d’Urto di Brescia.
Era incentrata sulle radio di movimento, per celebrare il primo anno di vita di Rodu. Tra le altre cose, rispondendo ad alcune domande, Moroni espresse questi concetti
più le radio andranno ad incrociarsi con le reti telematiche, come capacita’ informativa, tanto più funzioneranno come strumento di contraddizione, quasi insanabile all’interno dell’universo classificante e mediatizzato dei media nazionali. […]
Chi ha inventato la comunicazione interattiva, cioè la possibilità di accesso alla comunicazione come una grande Agorà comunicativa aperta, sono state le radio autogestite e di movimento. La comunicazione interattiva prima non esisteva, nemmeno nelle idee della radio di stato e tanto meno nelle televisioni, che oggi hanno tutta una serie di tecniche mistificate di apertura dei microfoni agli ascoltatori, ma i microfoni aperti sono stati un’invenzione vera e propria delle culture di movimento che, come noto, sono orizzontali, legate alla base e non alla comunicazione imposta dall’alto che hanno innovato la sfera della comunicazione anche del sistema.
Se nella seconda parte della citazione, non è difficile riscontrare un’eco delle parole di Bertolt Brecht, quando, nel Discorso sulla funzione della radio (1932), dice
si dovrebbe trasformare la radio da mezzo di distribuzione in mezzo di comunicazione. La radio potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si possa immaginare, uno straordinario sistema di canali, cioè potrebbe esserlo se fosse in grado non solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con altri. La radio dovrebbe di conseguenza abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventasse fornitore.
nel pronunciare le prime parole, le quali, tra le altre cose, confermano quelle scritte da de Kerckhove più di dieci anni dopo, non può che avere in mente la nascita di Ecn e di altre bbs legate ai movimenti sociali, che, proprio alle radio, e ai mezzi tecnici nelle loro disponibilità, devono la propria genesi. Anche Onda d’urto, di lì a poco, sarebbe diventata un nodo di Ecn.
Nel lavoro che porterò avanti, e che con questo testo sto presentando, farò spesso riferimento a Primo Moroni e alle sue riflessioni, utili sia per comprendere alcune scelte comunicative dei movimenti sociali, sia per descrivere le letture che questi davano della realtà italiana degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in particolare rispetto alle nuove tecnologie, ai cambiamenti intercorsi nel modello produttivo, e, di conseguenza, nella composizione e nella struttura delle classi subalterne.
Per il momento, cito ancora solo una vecchia intervista a Moroni, realizzata da Mixer il 17 luglio del 1991, in occasione di un servizio sul cyberpunk. In quel caso si espresse così
e credo che le sue parole siano parecchio importanti per comprendere l’approccio alle nuove tecnologie dei movimenti sociali in quel periodo, oltre che lo stacco con i nostri tempi, nei quali, proprio come Orwell, se si immagina un futuro, lo si fa in termini distopici, mentre, in tutti gli altri casi, sembra di essere rinchiusi in un eterno presente, nel quale tutto appare immutabile e ci sono pochi contatti con il passato, anche recente.
Questa visione della contemporaneità traspare parecchio dall’ultimo lavoro di Mattia Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, un libro che ha riscosso parecchio successo, almeno nella mia camera di risonanza social. Proprio facendo riferimento ad hacktivistə e mediattivistə, alle loro riflessioni e analisi, e, più in generale, a quelle prodotte dai movimenti sociali negli anni Ottanta e Novanta, è possibile muovere delle critiche a quel lavoro, il quale, comunque, mette a disposizione una mappatura interessante delle immagini, e delle mentalità, che permeano la nostra epoca, consentendo, proprio attraverso una critica alle tesi che espone, di chiarire il lavoro che intendo portare avanti.
Nessuna timeline è sbagliata
Salvia sostiene che, dal 2017, si è creata una frattura netta col passato. Una frattura tale da rendere inintelligibili gli anni in cui viviamo. Questa incapacità di decifrarli, in Occidente, ha portato a creare metafore come quella della timline oscura, la timeline in cui, nell’orizzonte degli eventi, si verificano i peggiori. I più assurdi.
La metafora – spiega – nasce da un episodio della serie Community, nel quale, un semplice lancio di dadi, apre sei realtà parallele, una delle quali particolarmente sfortunata per tutti i protagonisti, che i dadi li avevano lanciati solo per decidere chi sarebbe andato a ritirare le pizze dal rider che suonava alla porta.
Secondo un’altra teoria, invece – si dice sempre nel libro – saremmo finiti nella timeline oscura a causa di una donnola che, mordicchiando i cavi dell’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra, ci ha trascinatə in una dimensione parallela. La peggiore di quelle possibili.
Ma davvero questa metafora riflette l’incapacità di leggere i nostri tempi, così profondamente diversi da quelli che li hanno preceduti, anche nel recente passato?
Scrive Salvia:
La lenta accumulazione di contraddizioni a ogni livello – economico e politico, ecologico e sociale, tecnologico e culturale – ha finito per produrre un mutamento di qualità che ci rende incomprensibile lo stesso mondo in cui viviamo. Eccola, l’origine della fantasia sulla timeline sbagliata, la natura della nostra percezione di essere precipitati in un’Era dell’Assurdo.
E se la ragione fosse un’altra? Se dietro la metafora della timeline sbagliata, e alla base dell’incapacità di leggere i nostri tempi, ci fosse la mentalità che è andata diffondendosi a partire degli anni Ottanta del Novecento?
Se non fossero mutamenti profondi a rendere impossibile la comprensione, ma una certa filosofia della storia a impedire di comprendere quei cambiamenti?
Karl Popper, uno dei padri del liberismo contemporaneo, in una nota al secondo volume de La società aperta e i suoi nemici, sosteneva che la storia
non è che «un susseguirsi di eventi che si succedono l’un l’altro come l’onda tien dietro all’onda», e, per lo storico, non vi sarebbe che una norma sicura: «che bisogna ammettere… il ruolo del contingente e dell’imprevisto».
In questo passaggio il filosofo austriaco critica quello che definisce «storicismo», ovvero il metodo storico determinista, in base al quale si cerca di dare una spiegazione causale dei fenomeni e degli eventi che caratterizzano un determinato periodo, spesso cercando delle tendenze che sottostanno all’evoluzione storica.
Secondo Popper ciò è impossibile, e tende a bollare come inutile ogni analisi basata su tale metodo. Queste sue riflessioni relative alla storia, sembrano precedere, quasi fare da apripista, a una concezione che considera ogni analisi, ogni studio della società, come pura e semplice interpretazione, che, in quanto tale, ha lo stesso valore di milioni di altre. Cioè l’idea che è alla base della concezione della storia propria di coloro che fanno riferimento al postmodernismo.
Non è forse questa concezione della storia, che, di fatto,indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, protegge lo status quo, impedendo di individuare i nessi causali che portano a impoverire ampi strati della società, alle guerre, o a un utilizzo distorto delle tecnologie, a essere alla base dell’idea che eventi del tutto marginali e casuali, come una donnola che mordicchia i cavi dell’acceleratore di particelle, o un lancio di dadi, possano essere alla base dei mutamenti epocali che investono la società contemporanea?
Non è forse questa percezione degli eventi a renderli inintelligibili? A portare significativi strati della società a considerare la realtà immodificabile e pensare che tecnologie sempre più potenti non possano far altro che peggiorare la nostra condizione?
Probabilmente, dietro il diffondersi di metafore come quella della timeline oscura, c’è il divenire egemone di questi riferimenti interpretativi. Se tutto è casuale, anche un lancio di dadi, o una donnola che mordicchia un cavo, possono far precipitare gli eventi che modellano la realtà contemporanea. Non c’è nulla da capire, niente da comprendere e modificare per migliorare la società, e con essa l’esistenza di milioni di individui. Siamo in balia degli eventi, come “l’onda tien dietro l’onda”.
Ritorno a Orwell
Nelle tesi di Salvia, c’è un pessimismo profondo, quasi “bifiano”, che lo porta a vedere nero tutto. Un ritorno a quel modo di pensare così aspramente criticato da Primo Moroni nel 1991. Anche il mediattivismo, ai suoi occhi, è inutile. Anzi, dannoso:
la produzione delle rappresentazioni iconiche di protesta – scrive – va a disinnescare il contenuto sovversivo dei movimenti che dovrebbero rappresentare. I manifestanti si ritrovano quindi di fronte a una specie di amara commedia: il movimento antisistema ottiene la sua legittimazione da parte del sistema stesso, mediante la produzione di immagini che ne documentano la repressione.
In questo caso, Salvia non prende per niente in considerazione il rivoltare contro i media mainstream le loro tecniche di comunicazione; non considera che quelle immagini muovono al coinvolgimento di un pubblico che, se nessuno le avesse girate, o fotografate, non le avrebbe mai viste, perché assenti dal panorama mediatico ufficiale.
Spettacolarizzare, serve anche a comunicare con un pubblico abituato, dalla mentalità dominante, a quel linguaggio. È un contro-utilizzo di strumenti e tecniche. Un approccio anch’esso nato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, che trova un detonatore durante le occupazioni della Pantera, dove quelle riflessioni si sviluppano e maturano
Non è un caso che, mentre le televisioni commerciali si impongono, e il linguaggio degli spot pubblicitari tende a colonizzare gli immaginari, studentesse e studenti pensino, per primi, di realizzare proprio uno spot per far conoscere il loro movimento
In un momento in cui
Il medium video e la cultura veicolata da questo nuovo mezzo – che potremmo definire industriale o del consumo – hanno creato delle modificazioni sia al livello del sistema cognitivo sia a livello culturale che non possiamo ignorare
come scriverà, alle 5:38 di martedì 6 luglio 1993, Geppo Stella su Ecn, i movimenti sociali prendono atto di quelle modificazioni, le hackerano, e le indirizzano contro chi le ha create, immaginando un ecosistema informativo completamente diverso e democratico, riassunto qui nelle parole di Gomma
Nell’ultimo ventennio, quando le proteste si sono radicate, e sono state condivise da larghi strati della popolazione, è stato anche grazie a questo modo di comunicare, e alle infrastrutture telematiche che hanno consentito a determinati messaggi di divenire virali. L’alternativa è diffondere il proprio giornaletto ciclostilato, scritto in un linguaggio stantio, e che non di rado tratta tematiche completamente avulse dalle ragioni che animano gli appuntamenti in cui si cerca di venderlo. Un po’ come fanno Lotta comunista o Sinistra, classe e rivoluzione. Ma, se l’alternativa è questa, ben vengano i video di baci con gli scontri sullo sfondo.
Una storia senza fine
La tesi di fondo di Salvia, è che, nel 2016, si è chiuso un ciclo, quello di espansione dell’Occidente. La storia – dice – non è affatto finita come sosteneva Fukuyama. Oggi, in economia, ma anche nella produzione mediatica, emergono paesi che dell’Occidente non fanno parte. E l’idea di instabilità e insicurezza che permea le nostre società, deriva soprattutto da questo: dalla perdita di centralità dell’Occidente.
Non considera però, che, se il centro attorno al quale gravita l’economia-mondo, per citare Braudel, e soprattutto Arrighi, sta spostandosi a Oriente, i principi che quell’economia la regolano, non cambiano affatto. È in discussione il potere di alcuni stati, non certo i principi neoliberisti che hanno governato la loro ascesa. Quelli, il globo, lo hanno colonizzato e sono tutt’ora egemoni.
Anche la metafora delle produzioni culturali asiatiche, come Squid games, che tendono a invadere gli schermi occidentali non regge. Certo, quella serie è stata prodotta in Asia, ma adotta un linguaggio, dalle tematiche al montaggio, che è stato elaborato negli anni precedenti nell’Occidente neoliberista. E quel linguaggio resta egemone, anche se i paesi occidentali perdono di centralità. L’Occidente, perde di centralità proprio perché il capitalismo ha colonizzato il globo. È divenuto universale, per usare un termine caro a Marx, che pure è citato spesso da Salvia assieme a Gramsci.
Da questo punto di vista, la tesi di Fukuyama, regge. A oggi, non ci sono alternative concrete al modo di produzione capitalistico. E questo è anche dovuto al fatto che la nostra epoca, da tantə, come Salvia, è considerata totalmente slegata dal passato, anche recente. Anche per questo è necessario riannodare i fili della storia, e riconnettersi ad analisi, e pratiche, nate nel momento in cui il mondo stava prendendo la forma che oggi lo caratterizza. Anche per farle evolvere e superarle.
La storia spezzata
A mio avviso, c’è un errore alla base delle riflessioni di Salvia, e sta in un’interpretazione non corretta di alcune considerazioni di Marx ed Engels, in particolare quando accennano al superamento di un modo di produzione. Per Salvia, come avvenne col feudalesimo, il capitalismo starebbe superando al suo interno il proprio modo di produzione. Ciò, però, è una contraddizione in termini: un modo di produzione, non può superare sé stesso. Può rivoluzionarsi, evolvere, come di fatto il capitalismo ha sempre fatto. Ma non può superarsi. Fu il modo di produzione capitalistico che superò quello feudale.
Prima di proseguire, per spiegare meglio il concetto, forse è utile citare Marx, con un passo tratto dalla prefazione a Per la critica dell’economia politica. La citazione è lunga, ma utile.
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.
Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze ‘naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, cosi non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
Questo, per dire che, quando in Interregno è scritto: “I rapporti feudali «si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate», concludono Marx ed Engels; proseguendo col paragone, è facile vedere come le catene da spezzare per l’ulteriore sviluppo della rivoluzione tecnologica fossero la distinzione tra soggetto e oggetto”, Salvia non ha ben chiaro il concetto marxiano, e sta paragonando eventi e processi che non hanno alcuna affinità, non possono essere intesi come termini di paragone.
In altri termini, Salvia confonde una rivoluzione tecnica interna al modo di produzione, con il suo superamento. Non è errore da poco, soprattutto perché ciò gli impedisce di vedere che, proprio quella rivoluzione tecnologica sta ponendo le basi del superamento del modo di produzione. Della fine del capitalismo.
C’è un libro assai suggestivo di Aldo Schiavone, La storia spezzata si chiama. Ricostruisce la fine dell’Impero romano e sostiene che, in un momento nel quale le forze produttive stavano entrando in contraddizione con i rapporti di produzione, il sistema non seppe evolvere, non si scatenarono quelle forze rivoluzionarie alle quali Marx faceva riferimento. Non si riuscì a sostituire il lavoro schiavistico con quello salariato e ciò portò a un lento deteriorarsi del modo di produzione classico, che lo fece scivolare verso il declino e il modo di produzione feudale, nel quale lavoro salariato (in alcune città) e servitù della gleba (nelle campagne) convissero.
Anche oggi le forze produttive sono entrate in contraddizione con i rapporti di produzione, e, in un momento nel quale il lavoro salariato può essere superato, proprio grazie all’innovazione tecnologica, si riproducono meccanismi sociali che ne inibiscono il superamento. È questo che potrebbe trascinarci in una nuova era di mezzo, un interregno dove il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere.
Per evitarlo, per fare in modo che la rivoluzione sociale che si prospetta sia progressiva, e non un salto nel buio, credo sia necessario innanzitutto abbandonare la credenza che la nostra epoca sia caratterizzata da una cesura netta col passato, anche recente. Occorre tornare a studiare fenomeni e processi, assieme agli eventi che li caratterizzano, nel lungo periodo. Anche di secoli.
Sul primo numero di Decoder, la rivista cyberpunk italiana, pubblicato nel 1987, Zenga Kuren scrisse
Il riassetto dell’economia capitalistica iniziato alla fine degli anni 70 si fonda sulla capacità del comando capitalistico stesso di impossessarsi delle categorie analitiche per eccellenza: lo spazio e il tempo.
Si tratta di un vero e proprio salto quantico, irreversibile e irrefrenabile, è la maturità della rivoluzione industriale che pone le premesse del proprio superamento, una nuova era inizia, imposta da un ciclo che si va chiudendo […]
Curioso e affascinante questo processo generato dal capitale, che mentre ci criminalizza nell’antagonismo, ci fagocita e svuota le nostre capacità di immaginare società, modi di produzione, socialità diverse
Ancora una volta, analisi prodotte oltre trent’anni fa, appaiono più lucide di quelle condivise attualmente. Rendendo chiaro come, la nostra epoca, ben lungi dal rappresentare una cesura con il passato, di quel passato è figlia. E solo comprendendolo, potremo comprendere il presente.
Il lavoro che propongo sarà basato sulla ricostruzione di quel passato, in particolare sulla storia degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, sull’analisi dei mutamenti intercorsi all’interno del modello produttivo, nella composizione delle classi sociali e nell’informazione, indispensabile per plasmare la mentalità collettiva. In questo percorso cercherò di recuperare, e mettere a disposizione di tuttə, i documenti, le analisi, le riflessioni, prodotte in quel periodo dai movimenti sociali. Indispensabili per comprendere il presente e modificarlo.
Nel corso della ricerca scriverò alcuni post visibili a tuttə su questo blog, mentre altri, pubblicati su di una newsletter, saranno indirizzati esclusivamente a chi finanzierà il progetto. Al termine, dopo il “restauro” dell’archivio Ecn, che sarà reso disponibile sul web, realizzerò alcuni webdoc, un podcast e un romanzo interattivo fruibile online.
I webdoc avranno una struttura simile a questo post, come anche il romanzo interattivo, che sarà arricchito da contributi video e inserti audio realizzati appositamente. Protagonista del romanzo sarà Toni Negri, nelle insolite vesti di Gran Maestro della Loggia Massonica P2. Sarà un viaggio tra i misteri d’Italia e le trame che, dal dopoguerra, l’hanno attraversata. Perché gli autonomi e gli hacktivisti lo stanno aiutando? Lo scoprirai finanziando il progetto.
Posted: Settembre 27th, 2022 | Author:nullo | Filed under:General | Commenti disabilitati su Parco dei principi Grand Hotel
Un esercizio di storia del presente a partire dalle elezioni del 25 settembre 2022
Il 27 settembre, Repubblica, con un taglio piuttosto alto nell’impaginazione web della mattina, proponeva un’intervista alla titolare di un celebre bar della Garbatella, quello nel quale, qualche anno fa, fu ambientata la serie i Cesaroni.
La Garbatella, dove Meloni è nata, è un quartiere rosso di Roma, ma la titolare del bar si dice di destra, sostenendo che, adesso, finalmente può ammetterlo, anche se il quartiere resterà con il cuore a sinistra. Bottegai e luoghi rossi che sbiadiscono, come pure le fiction, e i media in generale, sono categorie assai importanti per interpretare il risultato elettorale. Però, per cominciare a comprenderlo appieno, credo sia necessario spostarsi di qualche chilometro.
I chilometri da fare dalla Garbatella, stando a Google maps, sono 7,9. Coi mezzi ci vogliono dai 40 ai 50 minuti per percorrerli. Scesi dall’autobus o dalla metro, camminando per l’ultimo tratto, si arriva in Via Gerolamo Frescobaldi, al numero 5. Siamo alle spalle di Villa Borghese, nel cuore dei Parioli, il quartiere della Roma bene per eccellenza.
Parco dei principi Grand Hotel
È qui che Meloni, assieme ai vertici di Fratelli d’Italia, ha atteso il risultato elettorale la notte tra il 25 e il 26 settembre 2022.
Non è un posto qualunque, moltə lo ignoreranno, ma il Parco dei principi Grand Hotel, tra il 3 e il 5 maggio del 1965, ospitò il Convegno sulla guerra rivoluzionaria, quello durante il quale, secondo diversi storici, fu teorizzata per la prima volta la strategia della tensione. Fu da quel momento che si cominciarono a progettare le stragi nelle piazze, sui treni e nelle stazioni per fermare l’avanzata comunista e del movimento dei lavoratori.
Pare assai strano che, escluso un giornalista parecchio bravo come Gaetano De Monte, il quale lo ha fatto notare sulla sua pagina facebook, questa coincidenza sia sfuggita alla totalità dei media, in genere golosi di notizie simili.
Eppure, questo caso, probabilmente fortuito, è altamente simbolico. Con le elezioni del 25 settembre si è chiuso un cerchio. Un cerchio che si era aperto nel luglio del 1960, con l’insurrezione che da Genova si era estesa a tutto il paese, portando alle dimissioni del governo Tambroni, sostenuto anche dai fascisti dell’Msi.
Al cuore della destra
Quei fatti furono centrali nella storia repubblicana, spostarono, anche mediaticamente, l’asse della società a sinistra. È da quel momento che l’antifascismo diviene realmente un valore fondante della Repubblica. È in quel momento che le classi subalterne italiane prendono coscienza della propria forza e cominciano a rivendicare diritti e garanzie. Quello che è stato definito il “lungo Sessantotto” italiano, ha le sue radici in quei giorni di otto anni prima. Forse, per comprenderlo, può essere utile ascoltare le parole di Palmiro Togliatti, a prescindere dalla simpatia, o dall’antipatia, che si può nutrire verso la sua figura politica.
Conferenza stampa Rai – Autunno 1960
Che i temi sollevati da Togliatti non fossero campati in aria è confermato dal fatto che, ancora cinque anni dopo, erano al centro delle riflessioni di chi stava per compiere i più atroci massacri della storia repubblicana per fermare l’avanzata del movimento dei lavoratori e comunista. Gli stessi che erano riuniti nel luogo in cui, cinquantasette anni dopo, Meloni ha festeggiato il risultato elettorale.
Al Convegno sulla guerra rivoluzionaria erano presenti vertici militari, politici (soprattutto missini), e giornalisti. Parecchi giornalisti. Però, invece che soffermarci sui loro discorsi, dai quali, tra le altre cose, traspare quella che sarà la stagione delle bombe, e come saranno attuati gli attentati, conviene concentrarsi sulle parole di Ivan Matteo Lombardo.
Non è un missino, Ivan Matteo Lombardo. È stato segretario del Partito socialista italiano e, dopo la scissione, ha aderito al Partito socialdemocratico italiano. Nel febbraio del 1965, appena qualche mese prima rispetto ai fatti di cui parliamo, compare, assieme ad alte cariche militari, politici democristiani, repubblicani e missini, tra i firmatari dell’Appello per la Nuova Repubblica, nel quale, tra le altre cose, si proponeva il presidenzialismo e un sistema elettorale maggioritario.
Questi alcuni stralci del suo intervento durante il convegno:
“Voi tutti vi rendete conto come la sottile opera d’intossicazione abbia fatto scempio, anche nel nostro Paese, dei valori morali e di costume, di concetti di fedeltà e di lealtà, dell’amor di patria, del santuario della famiglia, delle convinzioni religiose e di quelle ideali, della struttura dello Stato.”
“Intellettuali! Intellettuali? Vi chiedo scusa ma debbo confessarvi che quando sento parlare di costoro la saliva in bocca mi si trasforma in sputo!”
“Se questo lamentiamo e deprechiamo nei riguardi della Radio-TV gli è perché in essa (e del resto, non solo in quella italiana) numerosi sono i comunisti effettivi e di complemento, i para-comunisti per convenienza, i quali ben conoscendo l’efficacia di certe tecniche sul complesso gregario degli esseri umani, si preoccupano di fornire nei commenti quelle versioni, di dare agli avvenimenti quel certo accento, di sottacere o deformare quei fatti, che condurranno infine ad avere orientato, anzi violentato nello spirito, dai sette ai quindici milioni di telespettatori, ché tanti sono a seconda dei programmi.”
Esprime gli stessi concetti, e gli stessi toni, che ancora oggi permeano il discorso degli esponenti di destra.
Moltə, nel centenario della marcia su Roma, parlano di ritorno del fascismo in seguito alla vittoria di Fratelli d’Italia. Altrə, invece, come ha fatto il Manifesto il 26 settembre, richiamano le radici missine e almirantiane della compagine politica che si appresta a governare. Credo sbaglino entrambi.
Indubbiamente, dal punto di vista storico, è necessario richiamarsi a quelle esperienze per descrivere Fdi, ma, se ci si limita a esse, risulta difficile comprendere l’autoritarismo contemporaneo.
Il progetto politico, l’assetto istituzionale e sociale, che emerge dai programmi di Fratelli d’Italia ha la propria genesi nei primi anni Sessanta dello scorso secolo. In quell’alleanza trasversale che unì, attorno a una proposta presidenzialista e maggioritaria, i settori più reazionari della società italiana, dalla Dc al Movimento sociale italiano, passando per socialdemocratici, repubblicani e liberali. Con qualche capatina nel Psi, soprattutto in era craxiana.
Un progetto che, negli anni Ottanta, si salda fortemente alla restaurazione neoliberista della società, fino a rendersi inscindibile da essa.
Nella seconda repubblica, frutto anche della vittoria di quel blocco sociale, è Alleanza nazionale a incarnare, più di altri, quelle pulsioni che oggi sono arrivate alla guida del governo.
La via italiana all’autoritarismo
Una delle principali differenze tra il fascismo originario e l’autoritarismo contemporaneo, è proprio in questo: mentre nei primi anni del Novecento il fascismo nacque come reazione alle pulsioni rivoluzionarie, con l’intento di prendere il potere nell’immediato e conservarlo, negli anni Sessanta del secolo scorso la reazione prese un’altra strada, quella della guerra di lungo termine, più adatta alle condizione del momento.
L’Italia non era la Grecia: un colpo di stato avrebbe potuto innescare non solo un processo rivoluzionario in grado di creare un effetto domino nel resto d’Europa, ma anche un intervento diretto dell’Unione sovietica e, di conseguenza, un conflitto mondiale.
Le stesse considerazioni, le stesse paure, che fermavano il Pci di Togliatti nell’agire sulla via della rivoluzione, caratterizzavano il blocco reazionario. Alla lunga, hanno vinto loro.
Avversari?
Arriviamo così al 25 settembre 2022, il giorno nel quale Fratelli d’Italia diventa il primo partito e, con la coalizione di destra, governerà il paese.
Si fa spesso riferimento allo scontro tra Rauti e Fiano nella ex Stalingrado d’Italia per richiamare simbolicamente il risultato delle elezioni. Il fascismo stragista e irredento che batte la Resistenza e i reduci dai campi di concentramento. È, però, esclusivamente un aspetto, forse solo parziale, della vicenda.
Le stragi sono servite a condurci nella realtà che oggi si manifesta ai nostri occhi, le radici antifasciste della Repubblica si sono smarrite. Ma questa è storia degli anni Novanta. Ci aiuta a capire il presente, non lo descrive.
Il presente, credo sia descritto molto meglio dal duello tra Santanché e Cottarelli. Due facce del neoliberismo, solo apparentemente avversarie, che si scontrano.
Da un lato Santanché, che ostenta sguaiatamente ricchezza, cade spesso nel becero e, non di rado, assume un atteggiamento piagnucolante e aggressivo; dall’altro il sobrio Cottarelli, che chiede sacrifici, argomenta in base a teorie, spesso senza alcun fondamento reale, le proprie scelte, dirotta denaro verso chi già possiede grossa parte della ricchezza.
I due volti del neoliberismo, sbirro buono e sbirro cattivo: l’obiettivo che hanno è lo stesso, consolidare la vittoria di chi detiene enormi capitali nella lotta di classe che ha attraversato il secolo scorso.
Del resto, nel Piano di rinascita democratica proposto dalla P2, altra articolazione del blocco sociale che cominciò a formarsi in seguito ai fatti del luglio 1960, era scritto:
“nascita di due movimenti: l’uno, sulla sinistra (a cavallo fra PSI-PSDI-PRI- Liberali di sinistra e DC di sinistra), e l’altro sulla destra (a cavallo fra DC conservatori, liberali, e democratici della Destra Nazionale)”.
Sempre lì si può leggere, negli obiettivi di medio lungo termine:
“nuove leggi elettorali, per la Camera, di tipo misto (uninominale e proporzionale secondo il modello tedesco) riducendo il numero dei deputati a 450 e, per il Senato, di rappresentanza di secondo grado, regionale, degli interessi economici, sociali e culturali, diminuendo a 250 il numero dei senatori ed elevando da 5 a 25 quello dei senatori a vita di nomina presidenziale”.
Direi che, in questo caso, è andata anche meglio delle aspettative. Con la riforma del 2020, voluta soprattutto dai Cinque stelle, i deputati diventano 400, i senatori 200.
Il governo dei bottegai
Il dato elettorale è indicativo: i voti raccolti da Fdi alla camera, sono “appena” 7.300.628 (25,99%), circa un milione e duecentomila in meno rispetto a quelli che garantirono al Pci una percentuale simile nelle elezioni del 1968 (8.551.347 voti per una percentuale del 26, 90%). In quel caso il Pci, che si confermò secondo partito italiano, elesse 177 deputati, Fratelli d’Italia ne avrà 116: appena 61 in meno, nonostante la riduzione dei parlamentari.
Il blocco di destra, complessivamente, ha ottenuto 12.299.648, più o meno quanti mediamente ne otteneva la Dc nelle diverse competizioni elettorali e che non le consentivano di governare da sola.
Ciò è frutto della contrazione della partecipazione (l’astensione è la più alta nella storia repubblicana), e di una legge elettorale che, in molti casi, premia enormemente chi prende un solo voto in più rispetto all’avversario.
La somma dei voti delle forze esterne alla coalizione di destra è parecchio più alta rispetto al totale delle preferenza da essa raccolte; il partito di gran lunga più forte, è quello di coloro che non hanno votato, il 36,09% degli italiani. Quasi 17 milioni di persone.
Dati che confermano la scarsa rappresentatività del governo che andrà a formarsi.
Però, stiamo attenti al gioire del non ci rappresenta nessuno che gridiamo per le strade dal 2008 in poi. Se la maggioranza delle forze politiche è andata verso una riforma dell’architettura costituzionale che, di fatto, elimina, o depotenzia, il diritto di voto di grossa parte di cittadinə, lo ha fatto consapevolmente. Non sono stupidi o sprovveduti. Semplicemente non hanno paura del 45% degli operai, del 46% di coloro che sono in difficoltà economiche e del 40% del ceto medio che non si riconoscono in alcuna forza politica (dati SWG). Il blocco sociale su cui puntano, cercando di imbonire mediaticamente, o con qualche misura di sostegno, gli altri, è quello dei lavoratori autonomi, quelli che si astengono meno (25%) e votano soprattutto a destra (54%), i cui interessi hanno saldamente legato, dalla richiesta della flat tax, ai sussidi, a quelli del grande capitale.
Probabilmente non è un caso che la percentuale dei lavoratori autonomi, in Italia, sia la più elevata tra i paesi a capitalismo avanzato. E, forse, non è un caso che il lavoro autonomo è stato parecchio incentivato dal blocco reazionario, e non solo, a partire dagli anni Ottanta. Di fatto, per le sue caratteristiche intrinseche, anche quando nasconde rapporti di lavoro subordinati, è tra quei lavoratori che, maggiormente, può attecchire la mentalità individualistica e competitiva, alla base dell’ideologia neoliberista.
Evidentemente no. Potremo dare vita a riot, ma non a processi rivoluzionari con qualche possibilità di vincere e di consolidarsi. La maggior parte delle proposte che vengono da sinistra, anche da quella che si definisce rivoluzionaria, non hanno un respiro di lungo termine, sono indirizzate a mitigare le miserie dell’esistente.
Nei rari casi in cui le abbiamo, come quando proponiamo in agricoltura il km0, o la sovranità alimentare, non consideriamo che, fuori dal sistema attuale, se tutta l’agricoltura fosse organizzata così, causeremmo carestie che quelle in Ucraina ai tempi di Stalin parrebbero il digiuno del venerdì santo. Sarebbe un ritorno al Medioevo e alla sua organizzazione dell’agricoltura, non un espediente in grado di sfamare tuttə, in ogni luogo del pianeta.
Inoltre, non ci siamo quasi mai soffermatə a studiare in prospettiva il modello che ormai caratterizza la quasi totalità della produzione industriale. Ci siamo limitatə alla critica, non di rado rimpiangendo il passato. Un improbabile, e funesto, ritorno al fordismo. Come se fosse stato il modello produttivo, e non le lotte, a garantire diritti e garanzie.
E se la produzione flessibile aiutasse a superare il capitalismo e il lavoro salariato? Se fosse più indicata per produrre il necessario e non per garantire profitti sempre crescenti? Forse, dovremmo cominciare a chiedercelo.
Da dove ripartire?
Da un progetto di società. Per farlo sono necessarie tante teste e tante competenze. Dovremmo tenerne conto anche quando ci accorgiamo che i collettivi universitari di movimento sono composti soprattutto da umanistə. Sono indispensabili, ma non bastano! Abbiamo bisogno di ingegneri e biologhe, di medici e fisiche. Di tuttə. Solo così potremo analizzare la contemporaneità in tutta la sua complessità e disegnare una società nuova.
È un lavoro lungo, un po’ come quello fatto dal blocco reazionario per arrivare al 25 settembre 2022. Ma è l’unica strada che possiamo percorrere. Tantə più saremo, tanto sarà più breve. E, portando avanti questo obiettivo, daremo una spinta per innescare un processo creativo diffuso, indispensabile per ogni movimento rivoluzionario realmente moltitudinario.
Dobbiamo prendere atto, però, che non siamo in una fase rivoluzionaria. C’è fermento, c’è malcontento, ma, oltre a non avere un progetto e prospettive, non abbiamo la forza, anche nei mezzi, di sopportare, in questo momento, un simile confronto. Tocca confrontarsi con le elezioni, senza trascurare i momenti di lotta. È una sfida pure questa.
È necessario ripartire dai quartieri popolari, riconquistare la fiducia di chi ci vive, fornire soluzioni, anche nell’immediato, anche creando spazi di contropotere e intervenendo dove le istituzioni non lo fanno.
Per renderci conto della sfida che abbiamo di fronte, basta pensare al gas. Sarà un inverno durissimo, le bollette salatissime. Bene bruciarle, bene rifiutarsi di pagarle. Ma, a lungo termine, visto che gas in Italia non ne abbiamo, e per una transizione alle rinnovabili ci vuole tempo, per cucinare e scaldarci, da dove lo pigliamo? Dalla Russia o dagli Usa imperialiste, dall’Iran fondamentalista che reprime nel sangue le rivolte, dai signori della guerra libici, o dai torturatori egiziani?
Non ho risposte. L’unica cosa che penso è che un movimento rivoluzionario non può che avere prospettiva globale. E se dal Kurdistan e da Cuba arrivano elementi per strutturare l’assetto istituzionale e normativo della società futura, la sua struttura economica non può che essere elaborata dai chi vive nei paesi a capitalismo avanzato. Ci riusciremo?
L’Ortica di via Mascarella, piglia bene perché nessuno ti rompe il cazzo. Se vuoi scambiare quattro chiacchiere, trovi qualcunə per farle. Se vuoi startene per i fatti tuoi, a tirare le somme della giornata, nessuno, appunto, ti rompe il cazzo.
Però, in ‘sti giorni, tirare le somme della giornata, vuol dire pure mettere in ordine le informazioni che hai appreso aggiornando bulimico Tutta la guerra minuto per minuto trasmessa a reti unificate dalle redazioni online. A ‘sto giro poi, oltre al fatto che la situazione sembra più grave e complessa del solito, la guerra, nella vita mia, in qualche modo, ci è entrata in maniera un po’ più diretta rispetto ad altre volte.
Questi, però, sono cazzi miei, quelli che all’Ortica nessuno si fa. Era solo per dire che aggiorno più spesso di quanto sarebbe avvenuto normalmente (che già è tanto) le notizie che arrivano dal fronte.
I pensieri che seguono, sono quelli che mi sono venuti negli ultimi giorni. Al bar. Lo dico prima, così, se qualcunə li reputa cazzate, non viene a menarla con la storia degli idioti, dei bar, della rete e del diritto di parola che cacciò fuori, non azzecandoci una delle poche volte in vita sua, il monsù Umberto.
1. Vlad e zio Adolf
Non so quanto se ne renda conto, ma Putin, a dispetto della sua volontà, e contro ogni evidenza storica, dato che al momento alcun paragone è minimamente possibile, potrebbe diventare l’Hitler del Terzo millennio. È uno degli scenari che potrebbero verificarsi. Uno scenario, certo. Ma noi, per scenari, per fortuna, al momento, possiamo ragionare. E ragionarci può portare anche a scongiurarli.
Dicevo: il buon Vlad può diventare il nuovo Adolf. Agli Usa serve un nemico e una guerra, per salvaguardare, almeno in parte, il ruolo predominante che va erodendosi sempre più a vantaggio della Cina. La Cina, il vantaggio suo, lo ha tratto dalla globalizzazione e dai processi che la accompagnano. Sarebbe quella che ci perderebbe di più se le condizioni fin qui vigenti si deteriorassero. Ma, se le condizioni fin qui vigenti non si deteriorassero, quelli che ci perderebbero sarebbero gli Stati uniti. L’unico modo che avrebbero per indurre la Cina a non divenire predominante, e a spartirsi il mondo con loro, tipo come avvenne dopo la Seconda guerra mondiale con l’Urss, sarebbe proprio una guerra condotta contro un nemico comune, e le trattative che ne seguono.
È solo uno scenario. Ma non credo sia del tutto trascurabile.
2. Öcalan a Pechino
L’altro problema che credo abbiano i cinesi è che, sui movimenti rivoluzionari occidentali, ci hanno un appeal pari a zero. Il loro sistema, vero o meno che sia, è percepito come autoritario; più che comunista, è considerato neoliberista di stato. La smania di controllo che hanno poi, certo, frutto della logica dell’assedio, come fu per l’Urss, non può essere affatto accettata dai movimenti occidentali, per il semplice fatto che non l’accetterebbero dai propri governi, e, al controllo, e a come superare quella logica, ci hanno dedicato grandi dibattiti.
Un solo punto di incontro si potrebbe trovare: se i cinesi avviassero una transizione al comunismo basata sui principi del confederalismo democratico. Solo così potrebbero proporre al mondo un sistema, alternativo al capitalismo, desiderabile dai più. È nei loro interessi farlo? Ci riuscirebbero? Non ne ho idea. Mi pare semplicemente uno dei soli punti di incontro tra i vari rivoli in cui si è disperso il movimento comunista e anarchico a livello internazionale.
3. Frammenti
Dal canto loro, i movimenti rivoluzionari occidentali, non sono solo frammentati tra le nazioni, ma anche all’interno della stessa nazione, e in essa, tra le città. Non è una situazione ottimale. Paiono anch’essi molto lontani dall’esperimento del Rojava, dove diverse sensibilità combattono insieme e, insieme, costruiscono la società nuova. Orso, era anarchico, ma in molte foto è in posa sotto la falce e martello, simbolo del battaglione nel quale ha cominciato a combattere.
Da ‘ste parti, poi, la prospettiva rivoluzionaria, quella classica, armi in pugno e assalto ai palazzi, al momento, pare solo un rimpianto nostalgico del Novecento. Non sembra realizzabile. Del resto, pure in America Latina, le ultime rivoluzioni sono avvenute, con tutte le contraddizioni che ciò comporta, per via elettorale. A unità e a darci una rappresentanza, forse, anche da ‘ste parti dovremmo cominciare a pensare. Eviteremmo quello che è successo in Val di Susa coi Cinque stelle, e, probabilmente, resisteremmo anche alla repressione in maniera più efficace.
Ciò non vuol dire rinunciare a pratiche o a forme di lotta radicali, ma portare il conflitto all’interno delle istituzioni. Per accompagnare un processo radicale di cambiamento. La sfida è essere “dentro e contro”, né solo contro, e, soprattutto, né solo dentro, come, purtroppo, sta avvenendo in molti luoghi a forze che si professano espressione dei movimenti sociali.
4. Decolonizzare l’immaginario
Nei giorni scorsi, moltə, chi esaltando, chi facendo notare, giustamente, le contraddizioni, hanno parlato della villa dell’oligarca russo occupata dagli “anarchici” sulla quale era stata issata una bandiera ucraina. Il nostro immaginario, seppur involontariamente, è impregnato della propaganda che ci avvolge. Non di rado la nostra idea di democrazia e di libertà è la stessa che fa comodo alle classi dominanti. Molte volte, alcune nostre analisi, ci rendono inoffensivi, persi nell’astrazione e pregni di una critica al potere all’interno della quale è impossibile giungere a una diluizione del potere e a una democrazia radicale.
È il frutto di un processo ampio, che ha origini negli anni Sessanta, quando, attraverso i media, ma non solo, si sono imposti frame funzionali alle classi dominati dai quali non siamo immuni. A forme di lotta radicali, occorre accompagnare una teoria radicale, non solo in grado di criticare l’esistente, ma di cambiarlo. Che forma di governo immaginiamo? Ancora una volta potrebbero venirci in auto i kurdi, ma anche gli zapatisti.
A ‘ste cose ho pensato cercando di tirare le somme della giornata. Al fatto che al caos che si prospetta, dovremmo essere in grado di contrapporre un ordine nuovo, e radicalmente diverso dall’esistente. Altrimenti, guerra o non guerra, saremo comunque sconfitti.