Parco dei principi Grand Hotel

Posted: Settembre 27th, 2022 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Parco dei principi Grand Hotel
Un esercizio di storia del presente a partire dalle elezioni del 25 settembre 2022

Il 27 settembre, Repubblica, con un taglio piuttosto alto nell’impaginazione web della mattina, proponeva un’intervista alla titolare di un celebre bar della Garbatella, quello nel quale, qualche anno fa, fu ambientata la serie i Cesaroni.

La Garbatella, dove Meloni è nata, è un quartiere rosso di Roma, ma la titolare del bar si dice di destra, sostenendo che, adesso, finalmente può ammetterlo, anche se il quartiere resterà con il cuore a sinistra. Bottegai e luoghi rossi che sbiadiscono, come pure le fiction, e i media in generale, sono categorie assai importanti per interpretare il risultato elettorale. Però, per cominciare a comprenderlo appieno, credo sia necessario spostarsi di qualche chilometro.

I chilometri da fare dalla Garbatella, stando a Google maps, sono 7,9. Coi mezzi ci vogliono dai 40 ai 50 minuti per percorrerli. Scesi dall’autobus o dalla metro, camminando per l’ultimo tratto, si arriva in Via Gerolamo Frescobaldi, al numero 5. Siamo alle spalle di Villa Borghese, nel cuore dei Parioli, il quartiere della Roma bene per eccellenza.

Parco dei principi Grand Hotel

È qui che Meloni, assieme ai vertici di Fratelli d’Italia, ha atteso il risultato elettorale la notte tra il 25 e il 26 settembre 2022.

Non è un posto qualunque, moltə lo ignoreranno, ma il Parco dei principi Grand Hotel, tra il 3 e il 5 maggio del 1965, ospitò il Convegno sulla guerra rivoluzionaria, quello durante il quale, secondo diversi storici, fu teorizzata per la prima volta la strategia della tensione. Fu da quel momento che si cominciarono a progettare le stragi nelle piazze, sui treni e nelle stazioni per fermare l’avanzata comunista e del movimento dei lavoratori.

Pare assai strano che, escluso un giornalista parecchio bravo come Gaetano De Monte, il quale lo ha fatto notare sulla sua pagina facebook, questa coincidenza sia sfuggita alla totalità dei media, in genere golosi di notizie simili.

Eppure, questo caso, probabilmente fortuito, è altamente simbolico. Con le elezioni del 25 settembre si è chiuso un cerchio. Un cerchio che si era aperto nel luglio del 1960, con l’insurrezione che da Genova si era estesa a tutto il paese, portando alle dimissioni del governo Tambroni, sostenuto anche dai fascisti dell’Msi.

Al cuore della destra

Quei fatti furono centrali nella storia repubblicana, spostarono, anche mediaticamente, l’asse della società a sinistra. È da quel momento che l’antifascismo diviene realmente un valore fondante della Repubblica. È in quel momento che le classi subalterne italiane prendono coscienza della propria forza e cominciano a rivendicare diritti e garanzie. Quello che è stato definito il “lungo Sessantotto” italiano, ha le sue radici in quei giorni di otto anni prima. Forse, per comprenderlo, può essere utile ascoltare le parole di Palmiro Togliatti, a prescindere dalla simpatia, o dall’antipatia, che si può nutrire verso la sua figura politica.

Conferenza stampa Rai – Autunno 1960

Che i temi sollevati da Togliatti non fossero campati in aria è confermato dal fatto che, ancora cinque anni dopo, erano al centro delle riflessioni di chi stava per compiere i più atroci massacri della storia repubblicana per fermare l’avanzata del movimento dei lavoratori e comunista. Gli stessi che erano riuniti nel luogo in cui, cinquantasette anni dopo, Meloni ha festeggiato il risultato elettorale.

Al Convegno sulla guerra rivoluzionaria erano presenti vertici militari, politici (soprattutto missini), e giornalisti. Parecchi giornalisti. Però, invece che soffermarci sui loro discorsi, dai quali, tra le altre cose, traspare quella che sarà la stagione delle bombe, e come saranno attuati gli attentati, conviene concentrarsi sulle parole di Ivan Matteo Lombardo.

Non è un missino, Ivan Matteo Lombardo. È stato segretario del Partito socialista italiano e, dopo la scissione, ha aderito al Partito socialdemocratico italiano. Nel febbraio del 1965, appena qualche mese prima rispetto ai fatti di cui parliamo, compare, assieme ad alte cariche militari, politici democristiani, repubblicani e missini, tra i firmatari dell’Appello per la Nuova Repubblica, nel quale, tra le altre cose, si proponeva il presidenzialismo e un sistema elettorale maggioritario.

Questi alcuni stralci del suo intervento durante il convegno:

“Voi tutti vi rendete conto come la sottile opera d’intossicazione abbia fatto scempio, anche nel nostro Paese, dei valori morali e di costume, di concetti di fedeltà e di lealtà, dell’amor di patria, del santuario della famiglia, delle convinzioni religiose e di quelle ideali, della struttura dello Stato.”

“Intellettuali! Intellettuali? Vi chiedo scusa ma debbo confessarvi che quando sento parlare di costoro la saliva in bocca mi si trasforma in sputo!”

“Se questo lamentiamo e deprechiamo nei riguardi della Radio-TV gli è perché in essa (e del resto,
non solo in quella italiana) numerosi sono i comunisti effettivi e di complemento, i para-comunisti
per convenienza, i quali ben conoscendo l’efficacia di certe tecniche sul complesso gregario degli
esseri umani, si preoccupano di fornire nei commenti quelle versioni, di dare agli avvenimenti quel
certo accento, di sottacere o deformare quei fatti, che condurranno infine ad avere orientato, anzi
violentato nello spirito, dai sette ai quindici milioni di telespettatori, ché tanti sono a seconda dei
programmi.”

Esprime gli stessi concetti, e gli stessi toni, che ancora oggi permeano il discorso degli esponenti di destra.

Moltə, nel centenario della marcia su Roma, parlano di ritorno del fascismo in seguito alla vittoria di Fratelli d’Italia. Altrə, invece, come ha fatto il Manifesto il 26 settembre, richiamano le radici missine e almirantiane della compagine politica che si appresta a governare. Credo sbaglino entrambi.

Indubbiamente, dal punto di vista storico, è necessario richiamarsi a quelle esperienze per descrivere Fdi, ma, se ci si limita a esse, risulta difficile comprendere l’autoritarismo contemporaneo.

Il progetto politico, l’assetto istituzionale e sociale, che emerge dai programmi di Fratelli d’Italia ha la propria genesi nei primi anni Sessanta dello scorso secolo. In quell’alleanza trasversale che unì, attorno a una proposta presidenzialista e maggioritaria, i settori più reazionari della società italiana, dalla Dc al Movimento sociale italiano, passando per socialdemocratici, repubblicani e liberali. Con qualche capatina nel Psi, soprattutto in era craxiana.

Un progetto che, negli anni Ottanta, si salda fortemente alla restaurazione neoliberista della società, fino a rendersi inscindibile da essa.

Nella seconda repubblica, frutto anche della vittoria di quel blocco sociale, è Alleanza nazionale a incarnare, più di altri, quelle pulsioni che oggi sono arrivate alla guida del governo.

La via italiana all’autoritarismo

Una delle principali differenze tra il fascismo originario e l’autoritarismo contemporaneo, è proprio in questo: mentre nei primi anni del Novecento il fascismo nacque come reazione alle pulsioni rivoluzionarie, con l’intento di prendere il potere nell’immediato e conservarlo, negli anni Sessanta del secolo scorso la reazione prese un’altra strada, quella della guerra di lungo termine, più adatta alle condizione del momento.

L’Italia non era la Grecia: un colpo di stato avrebbe potuto innescare non solo un processo rivoluzionario in grado di creare un effetto domino nel resto d’Europa, ma anche un intervento diretto dell’Unione sovietica e, di conseguenza, un conflitto mondiale.

Le stesse considerazioni, le stesse paure, che fermavano il Pci di Togliatti nell’agire sulla via della rivoluzione, caratterizzavano il blocco reazionario. Alla lunga, hanno vinto loro.

Avversari?

Arriviamo così al 25 settembre 2022, il giorno nel quale Fratelli d’Italia diventa il primo partito e, con la coalizione di destra, governerà il paese.

Si fa spesso riferimento allo scontro tra Rauti e Fiano nella ex Stalingrado d’Italia per richiamare simbolicamente il risultato delle elezioni. Il fascismo stragista e irredento che batte la Resistenza e i reduci dai campi di concentramento. È, però, esclusivamente un aspetto, forse solo parziale, della vicenda.

Le stragi sono servite a condurci nella realtà che oggi si manifesta ai nostri occhi, le radici antifasciste della Repubblica si sono smarrite. Ma questa è storia degli anni Novanta. Ci aiuta a capire il presente, non lo descrive.

Il presente, credo sia descritto molto meglio dal duello tra Santanché e Cottarelli. Due facce del neoliberismo, solo apparentemente avversarie, che si scontrano.

Da un lato Santanché, che ostenta sguaiatamente ricchezza, cade spesso nel becero e, non di rado, assume un atteggiamento piagnucolante e aggressivo; dall’altro il sobrio Cottarelli, che chiede sacrifici, argomenta in base a teorie, spesso senza alcun fondamento reale, le proprie scelte, dirotta denaro verso chi già possiede grossa parte della ricchezza.

I due volti del neoliberismo, sbirro buono e sbirro cattivo: l’obiettivo che hanno è lo stesso, consolidare la vittoria di chi detiene enormi capitali nella lotta di classe che ha attraversato il secolo scorso.

Del resto, nel Piano di rinascita democratica proposto dalla P2, altra articolazione del blocco sociale che cominciò a formarsi in seguito ai fatti del luglio 1960, era scritto:

“nascita di due movimenti: l’uno, sulla sinistra (a cavallo fra PSI-PSDI-PRI- Liberali di sinistra e DC di sinistra), e l’altro sulla destra (a cavallo fra DC conservatori, liberali, e democratici della Destra Nazionale)”.

Sempre lì si può leggere, negli obiettivi di medio lungo termine:

“nuove leggi elettorali, per la Camera, di tipo misto (uninominale e proporzionale secondo il modello tedesco) riducendo il numero dei deputati a 450 e, per il Senato, di rappresentanza di secondo grado, regionale, degli interessi economici, sociali e culturali, diminuendo a 250 il numero dei senatori ed elevando da 5 a 25 quello dei senatori a vita di nomina presidenziale”.

Direi che, in questo caso, è andata anche meglio delle aspettative. Con la riforma del 2020, voluta soprattutto dai Cinque stelle, i deputati diventano 400, i senatori 200.

Il governo dei bottegai

Il dato elettorale è indicativo: i voti raccolti da Fdi alla camera, sono “appena” 7.300.628 (25,99%), circa un milione e duecentomila in meno rispetto a quelli che garantirono al Pci una percentuale simile nelle elezioni del 1968 (8.551.347 voti per una percentuale del 26, 90%). In quel caso il Pci, che si confermò secondo partito italiano, elesse 177 deputati, Fratelli d’Italia ne avrà 116: appena 61 in meno, nonostante la riduzione dei parlamentari.

Il blocco di destra, complessivamente, ha ottenuto 12.299.648, più o meno quanti mediamente ne otteneva la Dc nelle diverse competizioni elettorali e che non le consentivano di governare da sola.

Ciò è frutto della contrazione della partecipazione (l’astensione è la più alta nella storia repubblicana), e di una legge elettorale che, in molti casi, premia enormemente chi prende un solo voto in più rispetto all’avversario.

La somma dei voti delle forze esterne alla coalizione di destra è parecchio più alta rispetto al totale delle preferenza da essa raccolte; il partito di gran lunga più forte, è quello di coloro che non hanno votato, il 36,09% degli italiani. Quasi 17 milioni di persone.

Dati che confermano la scarsa rappresentatività del governo che andrà a formarsi.

Però, stiamo attenti al gioire del non ci rappresenta nessuno che gridiamo per le strade dal 2008 in poi. Se la maggioranza delle forze politiche è andata verso una riforma dell’architettura costituzionale che, di fatto, elimina, o depotenzia, il diritto di voto di grossa parte di cittadinə, lo ha fatto consapevolmente. Non sono stupidi o sprovveduti. Semplicemente non hanno paura del 45% degli operai, del 46% di coloro che sono in difficoltà economiche e del 40% del ceto medio che non si riconoscono in alcuna forza politica (dati SWG). Il blocco sociale su cui puntano, cercando di imbonire mediaticamente, o con qualche misura di sostegno, gli altri, è quello dei lavoratori autonomi, quelli che si astengono meno (25%) e votano soprattutto a destra (54%), i cui interessi hanno saldamente legato, dalla richiesta della flat tax, ai sussidi, a quelli del grande capitale.

Probabilmente non è un caso che la percentuale dei lavoratori autonomi, in Italia, sia la più elevata tra i paesi a capitalismo avanzato. E, forse, non è un caso che il lavoro autonomo è stato parecchio incentivato dal blocco reazionario, e non solo, a partire dagli anni Ottanta. Di fatto, per le sue caratteristiche intrinseche, anche quando nasconde rapporti di lavoro subordinati, è tra quei lavoratori che, maggiormente, può attecchire la mentalità individualistica e competitiva, alla base dell’ideologia neoliberista.

Self-employment rate – Dati Ocse

Tuttə insieme famo paura?

Evidentemente no. Potremo dare vita a riot, ma non a processi rivoluzionari con qualche possibilità di vincere e di consolidarsi. La maggior parte delle proposte che vengono da sinistra, anche da quella che si definisce rivoluzionaria, non hanno un respiro di lungo termine, sono indirizzate a mitigare le miserie dell’esistente.

Nei rari casi in cui le abbiamo, come quando proponiamo in agricoltura il km0, o la sovranità alimentare, non consideriamo che, fuori dal sistema attuale, se tutta l’agricoltura fosse organizzata così, causeremmo carestie che quelle in Ucraina ai tempi di Stalin parrebbero il digiuno del venerdì santo. Sarebbe un ritorno al Medioevo e alla sua organizzazione dell’agricoltura, non un espediente in grado di sfamare tuttə, in ogni luogo del pianeta.

Inoltre, non ci siamo quasi mai soffermatə a studiare in prospettiva il modello che ormai caratterizza la quasi totalità della produzione industriale. Ci siamo limitatə alla critica, non di rado rimpiangendo il passato. Un improbabile, e funesto, ritorno al fordismo. Come se fosse stato il modello produttivo, e non le lotte, a garantire diritti e garanzie.

E se la produzione flessibile aiutasse a superare il capitalismo e il lavoro salariato? Se fosse più indicata per produrre il necessario e non per garantire profitti sempre crescenti? Forse, dovremmo cominciare a chiedercelo.

Da dove ripartire?

Da un progetto di società. Per farlo sono necessarie tante teste e tante competenze. Dovremmo tenerne conto anche quando ci accorgiamo che i collettivi universitari di movimento sono composti soprattutto da umanistə. Sono indispensabili, ma non bastano! Abbiamo bisogno di ingegneri e biologhe, di medici e fisiche. Di tuttə. Solo così potremo analizzare la contemporaneità in tutta la sua complessità e disegnare una società nuova.

È un lavoro lungo, un po’ come quello fatto dal blocco reazionario per arrivare al 25 settembre 2022. Ma è l’unica strada che possiamo percorrere. Tantə più saremo, tanto sarà più breve. E, portando avanti questo obiettivo, daremo una spinta per innescare un processo creativo diffuso, indispensabile per ogni movimento rivoluzionario realmente moltitudinario.

Dobbiamo prendere atto, però, che non siamo in una fase rivoluzionaria. C’è fermento, c’è malcontento, ma, oltre a non avere un progetto e prospettive, non abbiamo la forza, anche nei mezzi, di sopportare, in questo momento, un simile confronto. Tocca confrontarsi con le elezioni, senza trascurare i momenti di lotta. È una sfida pure questa.

È necessario ripartire dai quartieri popolari, riconquistare la fiducia di chi ci vive, fornire soluzioni, anche nell’immediato, anche creando spazi di contropotere e intervenendo dove le istituzioni non lo fanno.

Per renderci conto della sfida che abbiamo di fronte, basta pensare al gas. Sarà un inverno durissimo, le bollette salatissime. Bene bruciarle, bene rifiutarsi di pagarle. Ma, a lungo termine, visto che gas in Italia non ne abbiamo, e per una transizione alle rinnovabili ci vuole tempo, per cucinare e scaldarci, da dove lo pigliamo? Dalla Russia o dagli Usa imperialiste, dall’Iran fondamentalista che reprime nel sangue le rivolte, dai signori della guerra libici, o dai torturatori egiziani?

Non ho risposte. L’unica cosa che penso è che un movimento rivoluzionario non può che avere prospettiva globale. E se dal Kurdistan e da Cuba arrivano elementi per strutturare l’assetto istituzionale e normativo della società futura, la sua struttura economica non può che essere elaborata dai chi vive nei paesi a capitalismo avanzato. Ci riusciremo?


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