Cellophane. Da qui, non si vede più il mare!

Posted: Ottobre 2nd, 2023 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Cellophane. Da qui, non si vede più il mare!

Montemesola è un piccolo comune poco distante da Taranto. Qui l’agricoltura intensiva ha sconvolto il paesaggio, le politiche neoliberiste hanno privatizzato tutto. Un microcosmo in grado di fare luce sull’Italia contemporanea.

Se a Montemesola ci arrivi dalla provinciale che la congiunge a Monteiasi, ricalcando una deviazione dell’antica Via Appia, i tre colli che compaiono nel suo stemma li noti subito. Ti si parano di fronte, svelandoti il percorso che probabilmente fecero i soldati napoleonici per raggiungere il paese, ormai più di duecento anni fa. Già, perché, fino al 1859, quando fu completata quella che ancora oggi alcunə anzianə chiamano “Via Nuova”, una traversa che congiunge l’abitato alla Taranto-Martina, per venire da ‘ste parti dalla città, dovevi seguire la Via Appia, che Montemesola e Monteiasi le sfiora. I tre colli invece, vennero presumibilmente adottati, o riscoperti, come emblema del comune proprio durante il Decennio napoleonico: è a quegli anni che risale la prima testimonianza giunta a noi. Solo percorrendo quella strada si vedono esattamente come sono rappresentati nel simbolo.

Colli e pipistrelli

Il più antico documento che attesta il loro utilizzo come insegna dell’universitas è datato 18 maggio 1810. Conservato nell’archivio storico comunale, illustra una proposta del sindaco, il quale suggerisce che vengano eletti due decurioni al fine di ripartire la tassa sui grani.

A guardarlo oggi, fa venire in mente quei test che non di rado si incontrano su Facebook: “Dimmi cosa vedi e ti dirò chi sei”. Nell’immagine che sigla il foglio, si vedono sì i tre colli, ma si scorge anche un pipistrello, o, se hai visione d’insieme, vedi i colli sovrastati da un enorme nottola. È un effetto non voluto, dovuto all’impossibilità di timbrare a colori e alla necessità di affidarsi a raffigurazioni bicromatiche in bianco e nero. Così, usando il bianco per le alture, il cielo che le sovrasta non può essere che nero. Prendendo la forma di un pipistrello.

Nella simbologia cristiana, il pipistrello è considerato un animale impuro, un essere malefico capace di portare morte e caos. Devastazione e caos vengono in mente anche mentre osservi i colli percorrendo la Monteiasi-Montemesola: non puoi non notare che uno di essi è quasi scomparso, in grossa parte mangiato da una cava d’argilla in funzione fino a circa un decennio fa; necessaria all’Ala Fantini, una fabbrica di laterizi con sede in paese, per produrre i mattoni forati che vendeva in tutta Italia. Quel colle consumato da una cava abbandonata, mai riportata, come prevede la legge, allo stato precedente, in grado di deturpare, nella realtà, l’icona che rappresenta questi luoghi sulla carta, probabilmente è l’istantanea migliore per descrivere lo stato in cui versa il comune.

Come nella microstoria

Taranto, che da qui dista pochissimo, ancor meno se si considera che il suo ultimo quartiere sul versante orientale, Paolo VI, si trova ad appena otto chilometri da Montemesola, è spesso stata al centro dell’attenzione negli ultimi anni. Non è mai stato fatto, però, un vero lavoro d’inchiesta sullo stato in cui versa la città, l’indice è sempre stato puntato sull’ex Ilva, ma senza connettere il siderurgico alle dinamiche che attraversano il territorio, spesso condizionate dalla sua stessa presenza. Gli altri comuni dell’area a rischio ambientale, e Montemesola è uno di questi (assieme a Crispiano, Massafra e Statte), invece, sotto i riflettori non ci sono finiti mai. Dimenticati da media che cercano la sensazione, ma, quasi sempre, si rifiutano di indagare a fondo i temi che decidono di trattare, non permettendo al pubblico di comprendere i processi che caratterizzano un territorio, i nessi con altri territori, e, con essi, la realtà contemporanea.

Eppure, come nella microstoria, analizzare nel dettaglio un particolare, in questo caso il contesto montemesolino, può essere utile per evidenziare meccanismi generali, che non solo connotano la provincia di Taranto, ma la società italiana e globale. Nel piccolo, a volte, è possibile osservare meglio alcuni fenomeni che, in contesti più vasti, vengono offuscati, pur essendo centrali nel determinare l’andamento sociale.

Cellophane&palazzi

La strada tra Montemesola e Monteiasi è molto trafficata d’estate: è la via più breve per raggiungere la Litoranea Salentina, la zona balneabile più vicina. A dire il vero, il mare, da qui, dista circa dieci chilometri, ma è il Mar Piccolo di Taranto: non è mai stato bonificato dagli scarichi delle fogne che un tempo riversavano lì gli escrementi, dalle scorie della base navale e dagli sversamenti inquinanti dell’ex Ilva. Ad agosto scorso, tornando da una giornata in spiaggia, mio nipote mi ha chiesto: “Zio, ma quello è ancora mare?” – in realtà eravamo nell’entroterra.

Giunti allo svincolo per immettersi sulla Taranto – Brindisi, circa a metà del tragitto tra i due paesi, lo sguardo spazia da un lato verso Grottaglie, dall’altro verso Taranto. Quella che mio nipote scambiava per acqua, è, su entrambi i lati, un’enorme distesa di cellophane utilizzato per ricoprire i vigneti. L’uva da tavola, così, è protetta dalle intemperie e matura prima. Se venduta sui mercati esteri, o del Nord Italia, garantisce maggiori profitti. Inganna l’occhio tutta quella plastica che avvolge chilometri di terreno. Sembra acqua davvero.

L’ex Ilva è in crisi, ma la propensione alla monocoltura permea questo territorio. Così, se la città, dopo il siderurgico, guarda esclusivamente al turismo, principalmente quello delle navi da crociera, le zone intorno a essa, un tempo, come Montemesola, prevalentemente operaie, puntano in primo luogo sull’agricoltura intensiva, la quale, a lungo andare, per effetto di diserbanti e fertilizzanti, inquina e desertifica la terra e, nel caso dell’uva da tavola, deturpa il paesaggio a causa del cellophane utilizzato per coprire i vigneti.

Pur essendo a soli 183 metri sul livello del mare, Montemesola è il comune più alto in questa area della provincia. Quando ci arrivi da Monteiasi, da Grottaglie, o da Paolo VI, a oriente puoi osservare la piana che si estende fino a Brindisi, a occidente il Mar Piccolo e Taranto. Il tratto di Via Grottaglie dove nei primi anni Ottanta fu realizzata una passeggiata, è l’unico che si affaccia ancora sul lungovalle. Da lì, fino a poco tempo fa, era possibile scorgere il mare. Adesso non riesci a distinguerlo quasi più, confuso com’è tra i teli di plastica utilizzati per far maturare prima l’uva.

Pare quasi che, pezzo dopo pezzo, ‘sta terra la stiano impacchettando nel cellophane, proprio come i prodotti nei supermercati. E, in effetti, un prodotto è considerata. Materia prima da svendere per garantire profitti a pochi. A imprese che sì, portano lavoro, ma anche redditi molto più bassi rispetto a quelli che assicurava il siderurgico. Aziende che, in modo non dissimile dall’acciaieria, hanno un elevato impatto ambientale e paesaggistico. La loro presenza, di fatto, impedisce anche solo di immaginare altre soluzioni per lo sviluppo di questi luoghi. Soluzioni che andrebbero elaborate collettivamente, non imposte dall’alto, in base agli interessi privati di alcuni, come avviene. Quei teli non deturpano solo il paesaggio, parlano di un modo di produzione, quello capitalistico, insostenibile per l’uomo e per l’ambiente in cui vive.

Il cellophane, però, se vi sono politiche agricole e paesaggistiche adeguate, può essere rimosso. Mica è solo quello a deturpare.

Percorsi i circa centocinquanta metri della passeggiata, proseguendo su Via Grottaglie fino alla prima porta, quella di San Martino, che permette di accedere al centro storico, le vallate che circondano il paese scompaiono alla vista. Sono nascoste da una serie di palazzi, alcuni dei quali molto brutti, costruiti tra gli anni Cinquanta e i primi Settanta del Secolo scorso. Sembra quasi che si sia voluta occultare la bellezza che circonda l’abitato a chi lo vive e lo anima. Per non permettere loro di goderne, per non stimolarne la fantasia. Per portarli ad accettare una realtà che deve apparire immutabile. Rimuovere questi stabili è assai più complesso che far scomparire la plastica.

Nascondere la bellezza

Camminando su quel tratto, viene in mente il rione Tamburi di Taranto: avrebbe un lungomare bellissimo, se solo non fosse celato, su Via Galeso, da una serie interminabile di edifici. Uno dei primi libri di Alessandro Leogrande aveva per titolo Il mare nascosto, e non è un caso che parlasse anche dello sviluppo urbanistico della città, in particolare delle sue periferie.

A Montemesola, come nella periferia di Taranto, zone che erano prevalentemente abitate dalla classe lavoratrice, la bellezza andava sottratta allo sguardo. Per garantire gli interessi e i profitti dei palazzinari; per inibire la capacità di sognare a soggettività che potevano immaginare un futuro diverso per questo territorio.

Non di rado, moltə, descrivendo questi luoghi, parlano di un’indolenza e di una rassegnazione ataviche, quasi un tratto genetico di chi li abita. Anche se sono natə qui, raramente conoscono la storia delle lotte che, da epoche remote, hanno segnato questa terra. Montemesola, per esempio, solo cento anni fa, contava una nutrita sezione degli Arditi del Popolo; nonostante i pochi abitanti, come numero di iscritti era tra le prime della provincia. Nel 1921 la sede del fascio fu incendiata dai contadini, uniti nella Lega, in corteo. Parecchi furono gli episodi di resistenza prima dell’avvento del fascismo. Caduto il regime, nel luglio del 1943, passarono pochi mesi, era il 6 settembre di quell’anno, e fu aperta la sezione comunista. Forse la prima in Italia dopo la dittatura. I tedeschi non avevano ancora abbandonato la zona e l’armistizio con gli Alleati sarebbe stato firmato solo due giorni dopo.

Spesso, con alcuni fenomeni, come le tradizioni, capita: pur se relativamente vicinə nel tempo, vengono fattə risalire a periodi remoti. È quello che è accaduto con l’ignavia e la rassegnazione di chi vive questi luoghi: lontane dall’essere un tratto genetico, sono fattori molto recenti, che caratterizzano questa terra più o meno dagli anni Ottanta del Novecento, quando ogni speranza di cambiamento radicale viene meno, e si impone l’ideologia neoliberista, con la mentalità e la cultura che produce. Nascondere il mare e le vallate, forse, ha parecchio contribuito al suo consolidamento.

Neoliberismo in salsa montemesolina

Se non si proseguire su Via Grottaglie, ma, una volta giunti in paese, si svolta a sinistra, su Via Buzzerio, è possibile costeggiare le antiche mura, anch’esse non più visibili perché, a loro ridosso, sono stati edificati dei palazzi. Sull’altro lato, invece, si trova la villa comunale, dedicata ai Martiri Partigiani (ma questo, a Montemesola, non lo ricorda più nessunə).

Fu realizzata tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta dalla giunta comunista che, dal 1975 al 1985, amministrò il comune (un’altra giunta comunista, non più legata al Pci, ma a Rifondazione, amministrò dal ‘95 al 2000). Era di proprietà della famiglia dell’ex podestà fascista, alla quale fu espropriata. Leggende locali narrano che, una notte, cercarono di tagliare gli alberi secolari lì presenti, per rendere inutile l’esproprio. Furono fermati da torme di metalmezzadri che si recarono immediatamente sul posto, impedendo di proseguire con gli abbattimenti.

Ora è data in gestione a un privato, che l’ha trasformata in un bar, versando al comune un canone di affitto di appena 220 euro al mese. La passata amministrazione comunale, guidata dal fratello dell’attuale sindaco, ha consumato un finanziamento pubblico di circa 400mila euro per restaurarla dopo tre lustri di abbandono. Da qualche mese il bar è chiuso, l’accesso all’unico spazio verde del paese nuovamente sbarrato.

Non è l’unica struttura o l’unico servizio dato in affidamento a privati sul territorio comunale. L’ex scuola materna è assegnata a una società sanitaria. In paese si vocifera che sta per essere venduta a essa, ma non c’è alcun atto a dimostrarlo. L’unico documento nel quale viene citata è il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, nel quale, tra il 2020 e il 2022, è stata svalutata per più di trecentomila euro.

Anche l’illuminazione pubblica, la mensa scolastica e il servizio di nettezza urbana sono affidatə a privati. Con appalti onerosi e ventennali, che pesano parecchio sulle tasche di cittadine e cittadini. La Tari, dal 2000 a oggi, è aumentata circa del 500 percento; l’addizionale Irpef è tra le più alte della provincia, con fasce di esenzione assai esigue, più basse di quelle nazionali. Il debito comunale, invece, continua a lievitare.

I conti non tornano

Nel 2014, quando è stato approvato il piano di riequilibrio finanziario pluriennale, una scelta che, pur accollando sulle casse comunali, e su cittadinə, oneri più elevati, permetteva, a differenza del dissesto, all’allora sindaco di ricandidarsi, la Corte dei conti ha certificato la presenza di debiti fuori bilancio pari a 971.409,91 euro. Tra il 2015 e il 2020, invece, i debiti fuori bilancio prodotti ammontano a 345.806,27 euro.

Gli attuali amministratori imputano grossa parte del disavanzo alle amministrazioni passate. Però, andando a scavare tra le delibere che riconoscono i debiti fuori bilancio tra il 2015 e il 2020, le uniche disponibili online (l’Albo pretorio storico, a oggi, risulta inaccessibile), ci si rende conto che molti di questi derivano da contenziosi e spese legali. Solo per fare un esempio: dopo non aver pagato le bollette dell’energia elettrica a Hera, si è fatta causa all’azienda, ovviamente perdendola. Cosa che farà enormemente aumentare l’esborso da parte del comune. Non è un caso se, nella deliberazione del 3 marzo 2022, la Corte faccia notare che non vengono accantonate le risorse necessarie per far fronte alle numerose controversie in atto.

Persino l’indennità di fine mandato dell’ex sindaco (eletto, come l’attuale, con una lista civica originariamente legata all’Udc), pari, per il periodo che va dal 2015 al 2020, a 9.158,07 euro è, secondo la Corte dei conti, da considerarsi “non conforme al dettato normativo”, poiché, per pagarla, si è attinto a un fondo le cui risorse non potevano essere destinate a quello scopo.

Borgo o borgata?

Nel frattempo Montemesola si sta spopolando: in venti anni ha perso poco meno di mille abitanti, passando da 4.275 a 3.587. Chi resta, è sempre più anzianə: l’età media, tra il 2002 e il 2021, è cresciuta di circa 7 anni, passando da 40,3 a 47,6.

La retorica di chi amministra fa sempre più spesso appello al concetto di borgo, favoleggiando un rilancio turistico del territorio, per ottenere il quale, però, non si fa nulla. La realtà, al contrario, pone sotto gli occhi dinamiche che fanno somigliare il paese più a una periferia disagiata che a un borgo da favola. Nel comune non è presente alcun presidio ospedaliero, neanche con servizi minimi; per ottenere un medico di base, occorre rivolgersi a quelli dei comuni vicini: quelli sul territorio hanno raggiunto il numero massimo di assistiti. Persino la guardia medica è disponibile solo tre giorni alla settimana. Negli altri devi raggiungere Monteiasi, anche se stai male in piena notte: il servizio si alterna tra i due paesi, distanti nove chilometri e mezzo. Pure la direzione scolastica è stata trasferita altrove, nello stesso momento in cui cessava il servizio di scuolabus, considerato dall’amministrazione troppo oneroso.

Le strade sono dissestate, le vie sporche. Quel poco verde che c’era, è stato rimosso. Come i pini marittimi di Largo Osanna, tagliati per far posto a nuovi alberi, non si sa ancora quali, che impiegheranno decenni per fare ombra. Intanto l’incidenza dei tumori resta alta.

Sembra quasi che tutte le storture delle politiche neoliberiste, e del capitalismo, si siano date appuntamento qui: dai tagli alla sanità, alla devastazione ambientale; dalle privatizzazioni selvagge, alla soppressione dei servizi pubblici; dai bassi salari, all’elevata disoccupazione. O forse, più semplicemente, paiono maggiormente evidenti a causa delle ridotte dimensioni del comune. Moltə, però, anche a diversi chilometri di distanza, potrebbero notare le stesse dinamiche nei luoghi in cui vivono. E prendere atto di come abbiano peggiorato la qualità della vita.

Tornino i pipistrelli

Che poi, Montemesola, un bel borgo lo è davvero. Con una storia particolarissima. Alla fine del Settecento, il marchese dell’epoca, giunto da poco da Napoli, fece radere al suolo l’antico abitato medievale, per edificarne da zero uno nuovo. Per questa ragione, a differenza che nei paesi vicini, le vie principali del centro storico sono abbastanza larghe, realizzate in base a principi urbanistici all’avanguardia per l’epoca. Gli irmici, i caratteristici granai rialzati dal suolo che prendono il nome dalle tegole che li coprivano, sono ormai tutti scomparsi, resta invece il palazzo marchesale, costruito contemporaneamente all’abitato, inglobando la struttura nobiliare che lo precedeva. Restano, assieme alla chiesa madre, anche le porte urbiche, una delle quali, la principale, quella di San Francesco, fu completata nel Decennio napoleonico e i suoi altorilievi portano ancora le tracce della rivoluzione francese.

Secondo alcune fonti, il paese fu fondato dagli abitanti di una città messapica di cui si è perso anche il nome, che aveva come acropoli Monte Salete, un colle poco distante. C’è chi sostiene possa essere la Sallentia polis messapìon, la città citata dal geografo Stefano di Bisanzio che darebbe il nome all’intero Salento. Erano gente di rito greco: nei primi anni del Trecento rifiutarono l’imposizione dell’Arcivescovo di Taranto, il quale ordinava loro di trasferirsi nella vicina Grottaglie, e ripopolarono il casale abbandonato che sorgeva dove ora si trova Montemesola.

Nelle vicinanze sono presenti diverse tracce risalenti al neolitico e, alcune leggende locali, richiamano la caccia selvaggia descritta da Carlo Ginzburg in Storia notturna. Uno dei pochi casi nel Meridione d’Italia. Nella gravina, un’insenatura carsica tipica di queste zone, purtroppo anch’essa privata e inaccessibile al pubblico, è invece presente un altare protovillanoviano che ha eguali solo nel viterbese.

Probabilmente, anche recuperando la storia di questi luoghi si potrà contribuire alla loro rinascita. Del resto, i pipistrelli, che all’inizio di questo testo sono stati interpretati come un cattivo presagio, nella cultura greca e romana erano, al contrario, di buon auspicio. Nelle favole di Esopo sfuggono sempre alla morte grazie al loro spirito di adattamento e all’ingegno che li caratterizza. Più in generale, rappresentavano una protezione dalle creature malefiche. Allora, proviamo a immaginare che il pipistrello, accidentalmente raffigurato in una delle prime rappresentazioni dello stemma di Montemesola, protegga il paese. Indichi, come nei racconti di Esopo, che ‘sto luogo continuerà a vivere, riuscendo ad attraversare la lunga notte del neoliberismo. Una notte, in questa terra, forse più buia che altrove.

Da oggi, periodicamente, pubblicherò su Nullo Project reportage come questo. Se ti piace questo lavoro, sostienilo, anche solo con il costo di un caffé. Ogni euro donato servirà a finanziare I loro incubi sono i nostri sogni, un progetto transmediale sugli anni Ottanta e Novanta del Novecento.