I loro incubi sono i nostri sogni
Posted: Marzo 17th, 2023 | Author: nullo | Filed under: General | Commenti disabilitati su I loro incubi sono i nostri sogniGli anni Ottanta e Novanta visti attraverso lo sguardo di hacktivistə e mediattivistə
Le sette vite di Léa, è una serie andata in onda su Netflix nel giugno del 2022. Racconta le vicende di una quindicenne contemporanea, Léa appunto, che, dopo aver rinvenuto dei resti umani durante un rave, si risveglia ogni notte nel giugno del 1991, incarnandosi in Ismail e nelle altre sei persone che erano con lui la notte in cui è morto.
Forse, a sentir parlare degli anni Ottanta e Novanta, proverai il suo stesso spaesamento, avvertito quando, nel corpo di Ismail, è alle prese con una vecchia cabina telefonica.
A moltə, quegli anni possono apparire come un’epoca lontana, molto diversa dalla nostra. A un primo impatto, anche la serie, facendo riferimento a strumenti ormai desueti, come una cabina telefonica, o un videoregistratore, pare trasmettere quest’idea. Però, di fondo, il messaggio è un altro: eventi prodottisi ormai diversi anni fa, continuano ad avere effetti nella nostra contemporaneità. Indagare quegli anni, può aiutare a comprendere i nostri.
Certo, è una questione di prospettiva. Occorre scegliere quella giusta.
Se, per esempio, qualcunə di voi si imbattesse nelle immagini del corteo circense, che attraversò le strade de La Sapienza di Roma alla fine di gennaio del 1991, durante le occupazioni della Pantera, non potrebbe che sentirsi sperdutə. Catapultatə in un’epoca poco affine alla nostra.
Del resto, anche Carmelo Albanese, nel suo documentario C’era un’Onda chiamata Pantera, mette in stretta relazione le immagini di quella parata con quelle degli anni Settanta. Così, a chi le guarda, non resta che pensare che quei decenni siano molto simili. Niente a che vedere con i nostri anni Venti del Terzo millennio.
Bianco
Eppure, basta cambiare punto di vista per evitare ogni straniamento e leggere quel periodo come strettamente connesso al nostro.
La fotografia a sinistra, rappresenta i cortei che si sono tenuti in Cina sul finire del 2022. Quei cartelli bianchi – spiegava un manifestante alla Reuters – simboleggiano la censura, l’impossibilità di esprimere il proprio dissenso. Negli ultimi anni, come ricostruisce Mattia Salvia su Istagram, nel suo profilo Iconografie del XXI secolo, in diverse parti del mondo ci sono state proteste simili.
L’immagine a destra, invece, è di più di trent’anni fa. È una foto di Luciano Nadalini che immortala il corteo muto, andato in scena per le strade di Bologna il primo marzo del 1990, durante le proteste studentesche contro la riforma universitaria.
Non ti sembrano sorprendentemente simili nei contenuti?
Le ragioni che spinsero studentesse e studenti bolognesi a sfilare imbavagliati, con cartelli e striscioni bianchi, sembrano invece parzialmente diverse rispetto a quelle odierne. A essere contestata non era semplicemente la censura, l’impossibilità di parlare, ma il travisamento delle parole, la società dello spettacolo che
preme per trasformare ogni messaggio in merce, ogni azione controculturale in stanco rito falsamente alternativo, ogni dissenso in nuovo pilastro dell’industria culturale; contestazione alla faziosità della stampa borghese che canalizza il nostro urlo e trasforma la “prateria in fiamme” in un “oceano di mutismo”
Sono parole di Roberto Bui, l’attuale Wu Ming 1, scritte su di un vecchio foglio, con il quale propone all’assemblea il corteo muto. Il testo, è conservato nell’Archivio dei movimenti di Via Avesella, a Bologna.
Sempre a Bologna, nell’Archivio “Marco Pezzi”, è conservato invece il volantino che venne distribuito durante quella manifestazione. Il bianco, in quel caso, viene spiegato così
BIANCO. Il vuoto non ha colore né forma, ma lo si immagina bianco, forse unidimensionale. Il bianco del nostro striscione è mastice tra le nostre labbra; il mutismo dei nostri cartelli è l’unica possibile parola…
Anche questi concetti, non ti paiono ancora attuali?
Gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, sono quelli in cui la nostra contemporaneità comincia a prendere forma. Da un lato si sgretola il vecchio sistema politico, persino l’assetto istituzionale muta. Dall’altro, l’economia, tra le altre cose, sia dal punto di vista del modello produttivo, sia da quello della globalizzazione delle proprietà, della produzione e dei commerci, assume le sembianze che la caratterizzano attualmente.
Sono gli anni in cui l’ideologia neoliberista diviene egemone, sconfiggendo le rivendicazioni sociali, assieme ai movimenti e alle forze politiche che le reclamavano.
È questa la ragione per la quale ho deciso di indagare quel periodo, ormai al centro di diverse serie e programmi tv, ma ancora fuori dall’obiettivo di molti storici. Anche perché – come sostiene Mercoledì Addams – se la nostra storia non la scriviamo noi, saranno altri a farlo.
È anche questo uno dei motivi per cui ho deciso di farlo attraverso alcune avanguardie: hacktivistə e mediattivistə in grado di mettere a disposizione dei movimenti sociali le infrastrutture telematiche per comunicare e di condividere analisi che, se rilette oggi, non di rado paiono ancora attuali.
Sorrisi
Ci sono due libri, scritti entrambi in Italia nei primi anni Ottanta, che mi capita spesso di tornare a sfogliare o a leggere: Guida all’uso delle parole, di Tullio De Mauro, e Il nome della rosa, di Umberto Eco.
Nel primo, al sorriso, sono dedicate esclusivamente alcune pagine. Ridere – dice De Mauro – è un tratto distintivo degli umani, quello che li differenzia, forse più di ogni altra cosa, da specie diverse. È col sorriso che un bambino passa dalla passività a un comportamento attivo. Ed è cominciando a sorridere che entra a pieno titolo nella comunità.
Anche il secondo libro, quello di Eco, parla del riso. In questo caso è centrale. Tutto ruota su di un monaco, Jorge da Burgos, che è pronto a uccidere pur di celare un libro che parla della commedia, cioè di uno spettacolo che porta a ridere. Spesso di gusto. Sorridere – secondo lui – allontana l’uomo da Dio. Non è lecito farsi beffa del creato, o dei potenti.
Perché parlo di questo?
Per due ragioni: i testi citati, seppur in contesti diversi, non di rado saranno richiamati negli episodi di questa serie; parlare di sorrisi, poi, mi permette di descrivere in modo pomposo il lavoro che con questo testo vorrei presentare, e che si svilupperà nei prossimi mesi.
Per dirla con termini altisonanti, quella che vado a raccontare è la storia di chi, in vari modi, ha cercato di cancellare il sorriso, o di trasformarlo in un riso amaro, a più generazioni. È, però, anche la storia di chi a questo si è opposto, ha indicato vie diverse. Strade che oggi, in molti casi, stanno scomparendo dalle mappe.
In termini meno barocchi, e più scientifici, quello che si svilupperà da questo primo discorso è un esercizio di storia del presente, che cercherà di descrivere come, e perché, la società che si manifesta ai nostri occhi ha preso forma. E lo fa attraverso lo sguardo dei movimenti sociali, in particolare di mediattivistə e hacktivistə che li hanno attraversati.
Non credere nei media, essilo!!!
Nel 2006, Tatiana Bazzichelli ha pubblicato Networking. La rete come arte, ad oggi – forse – la mappa più esaustiva delle esperienze di hacktivismo italiane. Nell’introduzione a quel libro, Derrick de Kerckhove scrive
L’Italia è un paese controllato dai media di comunicazione e in particolare dalla televisione: è normale che per resistere a un medium collettivo, se ne crei uno connettivo, dando vita a una tradizione artistica di networking che investe tutto il territorio nazionale, e che ancora oggi è in evoluzione. E nella creazione di tale connettività diffusa, l’accesso libero alla rete si fa un’occasione per sviluppare la propria comunicazione dal basso, plasmandola a seconda dei propri bisogni. Bisogni che diventano pratiche artistiche sovversive atte a creare nuovi scenari di partecipazione libera e di visibilità per tutti.
È per resistere allo strapotere dei media mainstream che, in Italia – dice de Kerckhove – grossa parte degli sforzi di hactivistə si sono indirizzati alla creazione di media indipendenti e liberi. A ben guardare, andando a ritroso nella storia nazionale, si trovano diverse conferme a questa sua riflessione.
Palmiro Togliatti, allora segretario del Pci, fu invitato per la prima volta in Tv il 14 ottobre del 1960, in seguito all’insurrezione antifascista del luglio di quell’anno, che, di fatto, portò a una parziale democratizzazione della vita politica italiana. In quel caso, esordì con queste parole
Con gli anni, e con il trasformarsi del Pci in una forza moderata, quel partito ebbe sempre meno problemi da questo punto di vista, ma, quella della “controinformazione”, fu una questione centrale per i movimenti sociali e le organizzazioni che nacquero alla sua sinistra. Qualche tempo fa, mentre lo intervistavo, Void, un veterano dell’hacktivismo italiano, poneva la questione in questi termini
Del resto, senza un’attitudine alla controinformazione, e in assenza di esperienze in questo senso, probabilmente anche la verità sulla strage di Piazza Fontana sarebbe rimasta nascosta, come non sarebbero nate tante esperienze, legate alla produzione cartacea, o a quella radiofonica. Alcune delle quali ancora oggi attive. È proprio nelle esperienze radiofoniche che si affina un’attitudine all’hack, a interagire creativamente con tecnologie pensate per altro.
Recentemente Laterza ha pubblicato Hackers. Storie e pratiche di una cultura. Lì, Federico Mazzini, dà questa definizione di hack:
qualsiasi interazione creativa e originale con una tecnologia preesistente volta a modificarne le funzioni rispetto a quanto previsto dal suo designer originale
Parole confermate da quanto diceva Gomma ormai più di trent’anni fa, quando fu intervistato da Mixer il 17 luglio 1991
I primi contatti tra i movimenti sociali e i pc, furono caratterizzati dall’utilizzo delle nuove tecnologie per impaginare fanzine cartacee. ZombiJ, che sui computer smanetta dai primi anni Ottanta, ed è uno dei padri di Ecn, la prima rete telematica in grado di connettere l’antagonismo italiano, ricorda così quell’incontro
Ben presto, però, ci si rese conto che il computer metteva a disposizione un ventaglio di possibilità molto più ampio rispetto alla semplice realizzazione di materiale cartaceo. Possibilità che cominciarono a essere esplorate con l’acquisto dei primi modem
È il prologo alla creazione di Ecn, la rete telematica nata nel 1989 che, fino ai primi anni del nuovo millennio, ha connesso i movimenti sociali italiani. ZombiJ descrive la sua genesi con queste parole
Qualche tempo fa Void e ZombiJ mi hanno messo a disposizione l’archivio di Ecn quando era ancora una bbs. In esso, divisi in ottantotto cartelle tematiche, sono contenuti 8.430 file: tutti i messaggi e gli scambi che circolarono su quella rete tra il 1989 e il 1996, quando Ecn migrò sul web. I temi trattati spaziano dall’antifascismo alle questioni del lavoro e del modello produttivo; dalle questioni di genere a quelle ambientali. Un patrimonio prezioso per comprendere quegli anni, e, con essi, i nostri.
Uno degli scopi del lavoro che mi accingo a intraprendere, è di “restaurare” quell’archivio, renderlo disponibile online e fruibile da tuttə.
Che, detto così, può sembrare una roba semplice. Però, se tenete conto che molti file sono nelle condizioni dell’immagine qui sotto, potete rendervi conto che un po’ di tempo ci vuole.
Poi, ovvio, non è che sono Indiana Jones che deve decifrare delle antiche tavolette d’argilla incise in proto elamitico, ma, insomma, molte delle mie ore saranno destinate a trovare il modo di farvi leggere ‘sto materiale.
Anche perché, scavando in quell’archivio, è possibile ricostruire diverse riflessioni dei movimenti sociali sugli anni, e i processi sociali, che sono al centro della ricerca che sto presentandovi.
Primo
Tra quei file, per esempio, è conservata la trascrizione di una vecchia intervista a Primo Moroni, realizzata nel marzo del 1995 da Radio Onda d’Urto di Brescia.
Era incentrata sulle radio di movimento, per celebrare il primo anno di vita di Rodu. Tra le altre cose, rispondendo ad alcune domande, Moroni espresse questi concetti
più le radio andranno ad incrociarsi con le reti telematiche, come capacita’ informativa, tanto più funzioneranno come strumento di contraddizione, quasi insanabile all’interno dell’universo classificante e mediatizzato dei media nazionali. […]
Chi ha inventato la comunicazione interattiva, cioè la possibilità di accesso alla comunicazione come una grande Agorà comunicativa aperta, sono state le radio autogestite e di movimento. La comunicazione interattiva prima non esisteva, nemmeno nelle idee della radio di stato e tanto meno nelle televisioni, che oggi hanno tutta una serie di tecniche mistificate di apertura dei microfoni agli ascoltatori, ma i microfoni aperti sono stati un’invenzione vera e propria delle culture di movimento che, come noto, sono orizzontali, legate alla base e non alla comunicazione imposta dall’alto che hanno innovato la sfera della comunicazione anche del sistema.
Se nella seconda parte della citazione, non è difficile riscontrare un’eco delle parole di Bertolt Brecht, quando, nel Discorso sulla funzione della radio (1932), dice
si dovrebbe trasformare la radio da mezzo di distribuzione in mezzo di comunicazione. La radio potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si possa immaginare, uno straordinario sistema di canali, cioè potrebbe esserlo se fosse in grado non solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con altri. La radio dovrebbe di conseguenza abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventasse fornitore.
nel pronunciare le prime parole, le quali, tra le altre cose, confermano quelle scritte da de Kerckhove più di dieci anni dopo, non può che avere in mente la nascita di Ecn e di altre bbs legate ai movimenti sociali, che, proprio alle radio, e ai mezzi tecnici nelle loro disponibilità, devono la propria genesi. Anche Onda d’urto, di lì a poco, sarebbe diventata un nodo di Ecn.
Nel lavoro che porterò avanti, e che con questo testo sto presentando, farò spesso riferimento a Primo Moroni e alle sue riflessioni, utili sia per comprendere alcune scelte comunicative dei movimenti sociali, sia per descrivere le letture che questi davano della realtà italiana degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in particolare rispetto alle nuove tecnologie, ai cambiamenti intercorsi nel modello produttivo, e, di conseguenza, nella composizione e nella struttura delle classi subalterne.
Per il momento, cito ancora solo una vecchia intervista a Moroni, realizzata da Mixer il 17 luglio del 1991, in occasione di un servizio sul cyberpunk. In quel caso si espresse così
e credo che le sue parole siano parecchio importanti per comprendere l’approccio alle nuove tecnologie dei movimenti sociali in quel periodo, oltre che lo stacco con i nostri tempi, nei quali, proprio come Orwell, se si immagina un futuro, lo si fa in termini distopici, mentre, in tutti gli altri casi, sembra di essere rinchiusi in un eterno presente, nel quale tutto appare immutabile e ci sono pochi contatti con il passato, anche recente.
Questa visione della contemporaneità traspare parecchio dall’ultimo lavoro di Mattia Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, un libro che ha riscosso parecchio successo, almeno nella mia camera di risonanza social. Proprio facendo riferimento ad hacktivistə e mediattivistə, alle loro riflessioni e analisi, e, più in generale, a quelle prodotte dai movimenti sociali negli anni Ottanta e Novanta, è possibile muovere delle critiche a quel lavoro, il quale, comunque, mette a disposizione una mappatura interessante delle immagini, e delle mentalità, che permeano la nostra epoca, consentendo, proprio attraverso una critica alle tesi che espone, di chiarire il lavoro che intendo portare avanti.
Nessuna timeline è sbagliata
Salvia sostiene che, dal 2017, si è creata una frattura netta col passato. Una frattura tale da rendere inintelligibili gli anni in cui viviamo. Questa incapacità di decifrarli, in Occidente, ha portato a creare metafore come quella della timline oscura, la timeline in cui, nell’orizzonte degli eventi, si verificano i peggiori. I più assurdi.
La metafora – spiega – nasce da un episodio della serie Community, nel quale, un semplice lancio di dadi, apre sei realtà parallele, una delle quali particolarmente sfortunata per tutti i protagonisti, che i dadi li avevano lanciati solo per decidere chi sarebbe andato a ritirare le pizze dal rider che suonava alla porta.
Secondo un’altra teoria, invece – si dice sempre nel libro – saremmo finiti nella timeline oscura a causa di una donnola che, mordicchiando i cavi dell’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra, ci ha trascinatə in una dimensione parallela. La peggiore di quelle possibili.
Ma davvero questa metafora riflette l’incapacità di leggere i nostri tempi, così profondamente diversi da quelli che li hanno preceduti, anche nel recente passato?
Scrive Salvia:
La lenta accumulazione di contraddizioni a ogni livello – economico e politico, ecologico e sociale, tecnologico e culturale – ha finito per produrre un mutamento di qualità che ci rende incomprensibile lo stesso mondo in cui viviamo. Eccola, l’origine della fantasia sulla timeline sbagliata, la natura della nostra percezione di essere precipitati in un’Era dell’Assurdo.
E se la ragione fosse un’altra? Se dietro la metafora della timeline sbagliata, e alla base dell’incapacità di leggere i nostri tempi, ci fosse la mentalità che è andata diffondendosi a partire degli anni Ottanta del Novecento?
Se non fossero mutamenti profondi a rendere impossibile la comprensione, ma una certa filosofia della storia a impedire di comprendere quei cambiamenti?
Karl Popper, uno dei padri del liberismo contemporaneo, in una nota al secondo volume de La società aperta e i suoi nemici, sosteneva che la storia
non è che «un susseguirsi di eventi che si succedono l’un l’altro come l’onda tien dietro all’onda», e, per lo storico, non vi sarebbe che una norma sicura: «che bisogna ammettere… il ruolo del contingente e dell’imprevisto».
In questo passaggio il filosofo austriaco critica quello che definisce «storicismo», ovvero il metodo storico determinista, in base al quale si cerca di dare una spiegazione causale dei fenomeni e degli eventi che caratterizzano un determinato periodo, spesso cercando delle tendenze che sottostanno all’evoluzione storica.
Secondo Popper ciò è impossibile, e tende a bollare come inutile ogni analisi basata su tale metodo. Queste sue riflessioni relative alla storia, sembrano precedere, quasi fare da apripista, a una concezione che considera ogni analisi, ogni studio della società, come pura e semplice interpretazione, che, in quanto tale, ha lo stesso valore di milioni di altre. Cioè l’idea che è alla base della concezione della storia propria di coloro che fanno riferimento al postmodernismo.
Non è forse questa concezione della storia, che, di fatto,indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, protegge lo status quo, impedendo di individuare i nessi causali che portano a impoverire ampi strati della società, alle guerre, o a un utilizzo distorto delle tecnologie, a essere alla base dell’idea che eventi del tutto marginali e casuali, come una donnola che mordicchia i cavi dell’acceleratore di particelle, o un lancio di dadi, possano essere alla base dei mutamenti epocali che investono la società contemporanea?
Non è forse questa percezione degli eventi a renderli inintelligibili? A portare significativi strati della società a considerare la realtà immodificabile e pensare che tecnologie sempre più potenti non possano far altro che peggiorare la nostra condizione?
Probabilmente, dietro il diffondersi di metafore come quella della timeline oscura, c’è il divenire egemone di questi riferimenti interpretativi. Se tutto è casuale, anche un lancio di dadi, o una donnola che mordicchia un cavo, possono far precipitare gli eventi che modellano la realtà contemporanea. Non c’è nulla da capire, niente da comprendere e modificare per migliorare la società, e con essa l’esistenza di milioni di individui. Siamo in balia degli eventi, come “l’onda tien dietro l’onda”.
Ritorno a Orwell
Nelle tesi di Salvia, c’è un pessimismo profondo, quasi “bifiano”, che lo porta a vedere nero tutto. Un ritorno a quel modo di pensare così aspramente criticato da Primo Moroni nel 1991. Anche il mediattivismo, ai suoi occhi, è inutile. Anzi, dannoso:
la produzione delle rappresentazioni iconiche di protesta – scrive – va a disinnescare il contenuto sovversivo dei movimenti che dovrebbero rappresentare. I manifestanti si ritrovano quindi di fronte a una specie di amara commedia: il movimento antisistema ottiene la sua legittimazione da parte del sistema stesso, mediante la produzione di immagini che ne documentano la repressione.
In questo caso, Salvia non prende per niente in considerazione il rivoltare contro i media mainstream le loro tecniche di comunicazione; non considera che quelle immagini muovono al coinvolgimento di un pubblico che, se nessuno le avesse girate, o fotografate, non le avrebbe mai viste, perché assenti dal panorama mediatico ufficiale.
Spettacolarizzare, serve anche a comunicare con un pubblico abituato, dalla mentalità dominante, a quel linguaggio. È un contro-utilizzo di strumenti e tecniche. Un approccio anch’esso nato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, che trova un detonatore durante le occupazioni della Pantera, dove quelle riflessioni si sviluppano e maturano
Non è un caso che, mentre le televisioni commerciali si impongono, e il linguaggio degli spot pubblicitari tende a colonizzare gli immaginari, studentesse e studenti pensino, per primi, di realizzare proprio uno spot per far conoscere il loro movimento
In un momento in cui
Il medium video e la cultura veicolata da questo nuovo mezzo – che potremmo definire industriale o del consumo – hanno creato delle modificazioni sia al livello del sistema cognitivo sia a livello culturale che non possiamo ignorare
come scriverà, alle 5:38 di martedì 6 luglio 1993, Geppo Stella su Ecn, i movimenti sociali prendono atto di quelle modificazioni, le hackerano, e le indirizzano contro chi le ha create, immaginando un ecosistema informativo completamente diverso e democratico, riassunto qui nelle parole di Gomma
Nell’ultimo ventennio, quando le proteste si sono radicate, e sono state condivise da larghi strati della popolazione, è stato anche grazie a questo modo di comunicare, e alle infrastrutture telematiche che hanno consentito a determinati messaggi di divenire virali. L’alternativa è diffondere il proprio giornaletto ciclostilato, scritto in un linguaggio stantio, e che non di rado tratta tematiche completamente avulse dalle ragioni che animano gli appuntamenti in cui si cerca di venderlo. Un po’ come fanno Lotta comunista o Sinistra, classe e rivoluzione. Ma, se l’alternativa è questa, ben vengano i video di baci con gli scontri sullo sfondo.
Una storia senza fine
La tesi di fondo di Salvia, è che, nel 2016, si è chiuso un ciclo, quello di espansione dell’Occidente. La storia – dice – non è affatto finita come sosteneva Fukuyama. Oggi, in economia, ma anche nella produzione mediatica, emergono paesi che dell’Occidente non fanno parte. E l’idea di instabilità e insicurezza che permea le nostre società, deriva soprattutto da questo: dalla perdita di centralità dell’Occidente.
Non considera però, che, se il centro attorno al quale gravita l’economia-mondo, per citare Braudel, e soprattutto Arrighi, sta spostandosi a Oriente, i principi che quell’economia la regolano, non cambiano affatto. È in discussione il potere di alcuni stati, non certo i principi neoliberisti che hanno governato la loro ascesa. Quelli, il globo, lo hanno colonizzato e sono tutt’ora egemoni.
Anche la metafora delle produzioni culturali asiatiche, come Squid games, che tendono a invadere gli schermi occidentali non regge. Certo, quella serie è stata prodotta in Asia, ma adotta un linguaggio, dalle tematiche al montaggio, che è stato elaborato negli anni precedenti nell’Occidente neoliberista. E quel linguaggio resta egemone, anche se i paesi occidentali perdono di centralità. L’Occidente, perde di centralità proprio perché il capitalismo ha colonizzato il globo. È divenuto universale, per usare un termine caro a Marx, che pure è citato spesso da Salvia assieme a Gramsci.
Da questo punto di vista, la tesi di Fukuyama, regge. A oggi, non ci sono alternative concrete al modo di produzione capitalistico. E questo è anche dovuto al fatto che la nostra epoca, da tantə, come Salvia, è considerata totalmente slegata dal passato, anche recente. Anche per questo è necessario riannodare i fili della storia, e riconnettersi ad analisi, e pratiche, nate nel momento in cui il mondo stava prendendo la forma che oggi lo caratterizza. Anche per farle evolvere e superarle.
La storia spezzata
A mio avviso, c’è un errore alla base delle riflessioni di Salvia, e sta in un’interpretazione non corretta di alcune considerazioni di Marx ed Engels, in particolare quando accennano al superamento di un modo di produzione. Per Salvia, come avvenne col feudalesimo, il capitalismo starebbe superando al suo interno il proprio modo di produzione. Ciò, però, è una contraddizione in termini: un modo di produzione, non può superare sé stesso. Può rivoluzionarsi, evolvere, come di fatto il capitalismo ha sempre fatto. Ma non può superarsi. Fu il modo di produzione capitalistico che superò quello feudale.
Prima di proseguire, per spiegare meglio il concetto, forse è utile citare Marx, con un passo tratto dalla prefazione a Per la critica dell’economia politica. La citazione è lunga, ma utile.
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.
Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze ‘naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, cosi non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
Questo, per dire che, quando in Interregno è scritto: “I rapporti feudali «si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate», concludono Marx ed Engels; proseguendo col paragone, è facile vedere come le catene da spezzare per l’ulteriore sviluppo della rivoluzione tecnologica fossero la distinzione tra soggetto e oggetto”, Salvia non ha ben chiaro il concetto marxiano, e sta paragonando eventi e processi che non hanno alcuna affinità, non possono essere intesi come termini di paragone.
In altri termini, Salvia confonde una rivoluzione tecnica interna al modo di produzione, con il suo superamento. Non è errore da poco, soprattutto perché ciò gli impedisce di vedere che, proprio quella rivoluzione tecnologica sta ponendo le basi del superamento del modo di produzione. Della fine del capitalismo.
C’è un libro assai suggestivo di Aldo Schiavone, La storia spezzata si chiama. Ricostruisce la fine dell’Impero romano e sostiene che, in un momento nel quale le forze produttive stavano entrando in contraddizione con i rapporti di produzione, il sistema non seppe evolvere, non si scatenarono quelle forze rivoluzionarie alle quali Marx faceva riferimento. Non si riuscì a sostituire il lavoro schiavistico con quello salariato e ciò portò a un lento deteriorarsi del modo di produzione classico, che lo fece scivolare verso il declino e il modo di produzione feudale, nel quale lavoro salariato (in alcune città) e servitù della gleba (nelle campagne) convissero.
Anche oggi le forze produttive sono entrate in contraddizione con i rapporti di produzione, e, in un momento nel quale il lavoro salariato può essere superato, proprio grazie all’innovazione tecnologica, si riproducono meccanismi sociali che ne inibiscono il superamento. È questo che potrebbe trascinarci in una nuova era di mezzo, un interregno dove il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere.
Per evitarlo, per fare in modo che la rivoluzione sociale che si prospetta sia progressiva, e non un salto nel buio, credo sia necessario innanzitutto abbandonare la credenza che la nostra epoca sia caratterizzata da una cesura netta col passato, anche recente. Occorre tornare a studiare fenomeni e processi, assieme agli eventi che li caratterizzano, nel lungo periodo. Anche di secoli.
Sul primo numero di Decoder, la rivista cyberpunk italiana, pubblicato nel 1987, Zenga Kuren scrisse
Il riassetto dell’economia capitalistica iniziato alla fine degli anni 70 si fonda sulla capacità del comando capitalistico stesso di impossessarsi delle categorie analitiche per eccellenza: lo spazio e il tempo.
Si tratta di un vero e proprio salto quantico, irreversibile e irrefrenabile, è la maturità della rivoluzione industriale che pone le premesse del proprio superamento, una nuova era inizia, imposta da un ciclo che si va chiudendo […]
Curioso e affascinante questo processo generato dal capitale, che mentre ci criminalizza nell’antagonismo, ci fagocita e svuota le nostre capacità di immaginare società, modi di produzione, socialità diverse
Ancora una volta, analisi prodotte oltre trent’anni fa, appaiono più lucide di quelle condivise attualmente. Rendendo chiaro come, la nostra epoca, ben lungi dal rappresentare una cesura con il passato, di quel passato è figlia. E solo comprendendolo, potremo comprendere il presente.
Il lavoro che propongo sarà basato sulla ricostruzione di quel passato, in particolare sulla storia degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, sull’analisi dei mutamenti intercorsi all’interno del modello produttivo, nella composizione delle classi sociali e nell’informazione, indispensabile per plasmare la mentalità collettiva. In questo percorso cercherò di recuperare, e mettere a disposizione di tuttə, i documenti, le analisi, le riflessioni, prodotte in quel periodo dai movimenti sociali. Indispensabili per comprendere il presente e modificarlo.
Nel corso della ricerca scriverò alcuni post visibili a tuttə su questo blog, mentre altri, pubblicati su di una newsletter, saranno indirizzati esclusivamente a chi finanzierà il progetto. Al termine, dopo il “restauro” dell’archivio Ecn, che sarà reso disponibile sul web, realizzerò alcuni webdoc, un podcast e un romanzo interattivo fruibile online.
Anche per questo chiedo il tuo sostegno.
I webdoc avranno una struttura simile a questo post, come anche il romanzo interattivo, che sarà arricchito da contributi video e inserti audio realizzati appositamente. Protagonista del romanzo sarà Toni Negri, nelle insolite vesti di Gran Maestro della Loggia Massonica P2. Sarà un viaggio tra i misteri d’Italia e le trame che, dal dopoguerra, l’hanno attraversata. Perché gli autonomi e gli hacktivisti lo stanno aiutando? Lo scoprirai finanziando il progetto.